L’informazione standard, uguale per tutti, non basta più

2 Aprile 2013 • Digitale, Giornalismi • by

Eden o Inferno non esistono senza angeli e demoni. “Technology is neither good nor bad; nor is it neutral”. La tecnologia in sé non è buona né cattiva; tantomeno è neutra. La legge sulla tecnologia dello studioso americano Melvin Kranzberg è l’assunto dal quale parte il lungo viaggio di Gianni Riotta, tra passato e presente, alla ricerca di una luce che non può avere al centro che l’uomo: “Bene e male del web siamo noi”.

Così la risposta alla domanda “Il web ci rende liberi?”, ultimo saggio di Riotta (Einaudi 2013, pp. 152, euro 18), è semplice e densa di responsabilità al tempo stesso: il web, ormai onnipresente in ogni aspetto della nostra vita quotidiana – dagli affetti al lavoro; dall’economia alla ricerca; dalla politica all’erotismo – è lo spazio della nostra cultura contemporanea, “che forgiamo e che ci forgia”.

Uno spazio enorme che lievita ogni ora. Una biblioteca del sapere tascabile, che ci segue ovunque, i cui dati raddoppiano nello spazio di una giornata: 300 miliardi di email, 200 milioni di tweet, 2,5 miliardi di sms scambiati ogni giorno. Ma alla domanda “il web ci rende liberi?” non troviamo risposte univoche. Google propone tesi a sostegno di posizioni alquanto lontane: dal sociologo Alex Franzen, angosciato dal fatto che il web ci isoli in noi stessi, a Clay Shirky, che dalla New York University vede nel web il nostro Rinascimento culturale che arricchisce l’umanità con un “surplus di conoscenza”. Tra le due visioni “lineari” contrapposte, web come bene / web come male, Riotta sceglie il web come campo di battaglia, aperto a tutti i contendenti, dove bene e male, libertà e oppressione, sapere e ignoranza si confrontano quotidianamente.

“Convivono oggi sul pianeta Terra due generazioni, l’ultima del Novecento e la prima del terzo millennio. Hanno la sorte comune di esistere nella grande transizione dal secolo delle Masse, il XX, al secolo Personal, il XXI: siamo noi, padri e madri e figli e figlie, l’umanità decisiva perché online il Buio non prevalga sulla Luce. A patto di alimentare nei nuovi media digitali valori classici, tolleranza, ragione, equanimità, curiosità, allegria, critica soprattutto a noi stessi, libertà, dialogo, confronto”(p.20).

Tocca a noi, alle persone. L’uomo è sempre al centro, anche quando usa la tecnologia costruita da altri uomini. Prendiamo la “Rivolta Twitter”, che è stata molto enfatizzata durante la Primavera Araba. Gli ottimisti del web “bene-bene” vi hanno letto un movimento nato dai social media. Ma analizzando i dati –riportati da Riotta – la realtà appare assai diversa. “Non c’è boom di accessi a Facebook e Twitter nei giorni della rabbia in Tunisia, Egitto e poi Siria. L’aumento delle iscrizioni ai social network segue, non precede, la rivolta: solo quando la ubiqua rete televisiva Al Jazeera parla nei suoi telegiornali di ‘Rivolta Twitter’, i ragazzi in strada si chiedono: ‘Perché non sono collegato anche io?’, e cominciano ad usare i new media”(p. 12).

La protesta nel mondo arabo nasce dalla miseria e dalle umiliazioni, dal disagio sociale profondo e dalla ribellione a strumenti e tradizioni politiche che non corrispondono più al comune sentire di una società che ha cominciato ad aprirsi, a confrontarsi. Perché “senza contenuti rivoluzionari la sola tecnologia non scatena svolte nella storia” (p. 69). Che poi i social media abbiano avuto un ruolo, anche importante, nello svolgersi della Primavera Araba è fuor di dubbio. Ma la loro influenza risulta oggi essere stata molto meno decisiva di quanto non ci apparisse nell’imminenza dei fatti e della loro enfatizzazione mediatica.

Anche il mito “lineare” del “Web-Ammazza-Giornali” è smontato, dati alla mano, da Riotta. Se la vulgata, sostenuta da molti giornalisti e editori, sposa la tesi che la gente non compri più i giornali perché legge le notizie gratis su internet, altri elementi fanno pensare a una crisi che viene da più lontano.  L’impatto di web e social media, benché imponente sui giornali, non può essere additato a unica spiegazione della crisi della stampa.

Intanto i “dinosauri del XV secolo” non se la cavano poi così male ovunque. Tra il 2005 e il 2009, la diffusione quotidiana globale è aumentata del 6%. Un dato che beneficia della spinta di paesi come l’India (110 milioni di copie vendute al giorno), in grado di sopperire alle molte testate che in Occidente hanno chiuso o ridotto la loro influenza.

Se poi consideriamo la curva di diffusione dei giornali prima dell’avvento del web, scopriremo che la flessione precede il boom di internet di ben 25 anni. Ancora una volta Riotta fa parlare i dati: tra il 1960 e il 1974 i giornali americani scendono da 1,12 copie vendute a famiglia a solo 0,88. New York, che negli anni Venti contava 14 testate locali, negli anni Settanta, benché il web fosse ancora lontano, si accontenta di quattro. Nello stesso periodo in Norvegia e Danimarca scompaiono decine di testate. In Italia muoiono, tra gli altri, “Paese Sera”, “Stampa Sera”, l”Ora”, il “Corriere d’Informazione”.

“Perché il modello «lineare» Colpa-del-Web / Merito-del-Web si sbriciola ancora una volta davanti alla realtà, se la guardiamo senza fissare negli occhi la Medusa tecnologica? Perché, come nel caso della Primavera Araba, è il cambiamento della società che mette in difficoltà i giornali, non il web, che non esisteva neppure. L’informazione si è diffusa online non perché «gratis» o accessibile ovunque, ma perché il web, con la sua duttilità, irriverenza, ubiquità, con la sua sfida all’autorità centrale o istituzionale, con la capacità di creare comunità e tenerle in contatto ventiquattro ore al giorno, risponde meglio ai bisogni dei cittadini del XXI secolo di quanto non riesca a fare la copia di un giornale, con le notizie di ieri e gli editoriali firmati da commentatori distanti e cattedratici. I giornali vanno in affanno già nel 1974 perché il modello di trasmissione verticale dei valori, alto-basso, entra in crisi nelle istituzioni occidentali, in fabbrica, in ufficio, a scuola, in famiglia, nella Chiesa. La loro comunicazione fissa, centro-periferia, comincia a funzionare meno. Avevamo bisogno di un nuovo mezzo di comunicazione, «personal», come i nostri antenati ebbero bisogno della stampa per avviare la rivoluzione borghese. Ed è arrivato il web, effetto del cambiamento sociale, non sua prima causa”(p.138).

Se non corriamo più in edicola a comprare il giornale è perché l’informazione standard, uguale per tutti, non ci basta più; perché hanno perso la leadership esclusiva sulla formazione dell’opinione pubblica; perché non hanno più l’esclusiva del rapporto con le fonti; perché sono soggetti alle stesse verifiche che un tempo imponevano agli altri; perché la società si è fatta più disincantata, incredula e critica. E forse, per tutto questo, Gutenberg non basta più.

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