Secondo Stuart Allan, Professore di Giornalismo e Comunicazione alla Cardiff University, il pubblico dipende sempre di più dai citizen journalist per assistere e documentare gli eventi in modo obiettivo, e per fare sì che i media tradizionali continuino a rappresentare con onestà e autenticità.
Nel suo libro, Citizen Witnessing: Revisioning Journalism in Times of Crisis, Allan sostiene che la maggior parte dei “citizen journalist” siano in realtà “citizen witnesses”, testimoni che si trovano nel luogo di un avvenimento per caso e registrano, fotografano e ne scrivono spontaneamente, rivolgendosi direttamente al pubblico tramite i social media. Per Allan, essendo il giornalismo amatoriale facilitato dalla tecnologia, questo diverrà sempre di più parte integrante e accettata del processo di raccolta di notizie.
Insieme ad Allan abbiamo discusso della sua più recente pubblicazione e della ricerca su questo tema, oltre alle caratteristiche portanti del citizen journalism in questa fase. Ecco la nostra intervista.
Spesso si ritiene che il “citizen journalism” sia semplicemente giornalismo fatto dai cittadini, ma la sua definizione è davvero così semplice?
“Sono spesso i giornalisti a fare riferimento ai loro concittadini con l’espressione ‘citizen journalist’. Dobbiamo però riflettere bene su cosa succede quando le persone vengono bollate come giornalisti amatoriali, e dovremmo forse anche esplorare le opinioni di chi utilizza quell’espressione per descrivere se stesso e ciò che fa. Spesso queste discordanze a livello di definizione si rivelano significative quando si tratta di dare testimonianza, e proprio per questo ho distinto ‘citizen witnessing’ da ‘citizen journalism’ nel mio ultimo lavoro”.
Il citizen journalism è davvero un fenomeno emerso con il Web, oppure una pratica di questo tipo, descrivibile in modo simile, esisteva già in passato?
“L’espressione ‘citizen journalism’ è entrata a fare parte del gergo giornalistico nel periodo seguente lo tsunami del dicembre 2004. A mio avviso, però, la nozione di ‘citizen journalism’ è tanto vecchia quanto il giornalismo stesso. Dal punto di vista odierno possiamo guardare al passato e vedere i primi esempi di ciò che ora chiamiamo giornalismo partecipativo già prima che il termine entrasse a fare parte del lessico giornalistico. Un buon esempio storicizzato è il filmato amatoriale di Abraham Zapruder che ha registrato l’assassinio di John F. Kennedy a Dallas nel 1963. Chiamati ‘informatori amatoriali’, ‘giornalisti personali’, ‘reporter fai-da-te’, e in altri svariati modi, questi personaggi sono un esempio di come i cittadini abbiano realizzato prove visive che hanno portato alla comprensione di fatti importanti che hanno avuto conseguenze profonde per la vita pubblica”.
Come descriverebbe un citizen journalist e quali sono le motivazioni che lo inducono a svolgere questo servizio?
“Ho usato l’espressione ‘citizen witness’ per descrivere persone che si ritrovano sulla scena di un evento particolare, come un incidente, una catastrofe, un conflitto o persino in una zona di guerra, e che hanno la prontezza di spirito di cercare di documentare ciò che vedono. Possono trovarsi in loco per puro caso o intenzionalmente, ma ambiscono comunque a registrare ciò che sta succedendo dal loro punto di vista. È questo senso di testimonianza che è cruciale, a mio avviso, indipendentemente dal fatto che la persona coinvolta si identifichi o meno come citizen journalist”.
Gli organi di stampa e i redattori come gestiscono i citizen journalist? Qual è l’approccio?
“Questo punto rappresenta precisamente la sfida su cui giornalisti ed editori stanno continuamente riflettendo. La sua domanda usa il verbo ‘gestire’, un termine che era esattamente l’atteggiamento iniziale: si trattava di cercare di contenere o gestire il contenuto dei cittadini, tenendolo ben distinto dal ‘vero’ giornalismo, ma ora credo che sia visto più positivamente. Gli organi di informazione più intelligenti, a mio parere, cercano di stabilire relazioni innovative e collaborative con i loro lettori, ascoltatori o spettatori. Questo senso di partecipazione è parte di uno spostamento più grande e drammatico che ha avuto luogo durante gli ultimi anni e tuttora si sta facendo strada dal punto di vista pratico. La prima persona in loco che documenta cosa succede è probabilmente un cittadino comune. Questa persona, inoltre, probabilmente, condividerà il proprio contenuto, il suo reportage personale, con altre persone. E molto probabilmente lo farà attraverso i social media”.
Come fanno i redattori a verificare se le informazioni dei citizen journalist sono vere? E quali sono i rischi del loro utilizzo?
“Giornalisti ed editor lavorano cercando costantemente di migliorare le loro strategie per verificare indipendentemente la credibilità del materiale che raccolgono dal pubblico, affrontando una forte pressione che impone di prendere decisioni rapide, a volte prima che i fatti siano stati accertati completamente. Resistere alla fretta di giudicare può essere difficile, ma l’organizzazione di informazione migliore deve rallentare il passo finché il fatto è stato davvero verificato e compreso”.
I fallimenti della verifica delle notizia sono però frequenti. Ne vuole citare qualcuno?
“Nel periodo immediatamente successivo allo tsunami del 2004 e agli inizi del 2005 , in diverse occasioni, si è scoperto che delle immagini in circolazione erano state prodotte durante un’altra catastrofe anni prima. Mi ricordo che lo stesso problema è apparso dopo il terremoto di Haiti nel 2010, oltre che in altri casi”.
Nonostante questo pericolo, le testate giornalistiche sono disposte a usare questo tipo di contenuto. Quale particolarità o valore aggiunto presenta?
“Dal punto di vista delle testate, monitorare e processare i materiali dei cittadini è molto più economico che usare la loro rete di giornalisti per raccogliere notizie in modo indipendente. Le fotografie fatte dai cittadini, in particolare, sono molto amate dal pubblico. Un contenuto che piace ed è pure relativamente a buon mercato è quasi irresistibile per i giornali. Spiegare come mai certe persone preferiscono immagini prodotte da cittadini, è argomento che necessità di ulteriore ricerca. Recentemente, però, ho condotto una ricerca su questo tema con Chris Peters nei Paesi Bassi: abbiamo sottoposto un questionario valutativo a delle persone giovani in Canada, Olanda e nel Regno Unito per esplorare questo ambito. Molti partecipanti allo studio hanno riconosciuto che fotografi professionisti solitamente producono immagini di qualità migliore, per quanto riguarda l’obiettività delle informazioni riportate, ma temono comunque che queste immagini possano essere meno autentiche di quelle fornite da comuni cittadini che si sono invece trovati in loco per caso”.
Secondo lei, il citizen journalism ha davvero cambiato le norme e la prassi del giornalismo professionale?
“In generale, i giornalisti spesso tendevano ad essere isolati dai loro lettori, spettatori o ascoltatori. Ora non è più così. Il pubblico può esaminare con attenzione quasi tutto ciò che un giornalista produce e poi condividere il proprio giudizio e commenti. I giornalisti, di conseguenza, devono fare molta attenzione a cosa dicono e fanno, sapendo che qualsiasi passo falso o errore probabilmente genererà email, tweet o altre reazioni nella blogosfera”.