Corriere del Ticino, 31.8.2006
Emergono casi di abili contraffazioni, l’importanza dello «spin doctor»
La guerra oggi si combatte anche e soprattutto con i media. O meglio: manipolando i media. Osama Bin Laden ha mostrato la via con la spettacolarizzazione degli attentati e la sapiente miscela di minacce e silenzi seguiti all’11 settembre, gli Hezbollah hanno imparato la lezione. E i giornalisti sono diventati gli strumenti inconsapevoli delle manovre dei guerriglieri del Partito di Dio. Non tutti i media, per fortuna, anche perché le tecniche utilizzate nel sud del Libano sono risultate spesso artigianali e dunque individuabili.
Il bambino è inerme e sporco di fuliggine. Un soccorritore con i baffi e l’elmetto verde in testa lo ha appena estratto dalle macerie di una casa colpita dai missili israeliani. Quella foto, scattata a Cana il 30 luglio, fa il giro del mondo. Diventa uno dei simboli dell’atrocità della guerra in Libano. Il giorno dopo sui terminali delle redazioni di tutto il mondo appare un’altra foto: si vede un uomo che assiste alla rimozione delle macerie di una casa distrutta in un bombardamento in un’altra località, a Srefa. Anche quell’uomo ha l’elmetto verde: è lo stesso di Cana. Ed è ancora lui che appare in un fotogramma in cima a un cumulo di macerie, questa volta a Tiro. E non si può non rimanere sorpresi scoprendo che nel 1996 – dieci anni fa! – quella stessa persona, sempre con l’elmetto verde, era stata ritratta mentre mostrava il corpo di un bebè decapitato nel sud del Libano in un raid israeliano. Qualcosa non torna: o quel soccorritore ha un tempismo straordinario oppure non è un soccorritore. E infatti, verosimilmente, è un attivista di Hezbollah, forse un fotoreporter egli stesso, che si è prestato a recitare il ruolo dell’infermiere o del pompiere per rendere più vive, autentiche, drammatiche le immagini e dunque sostenere la causa del movimento sciita.
La guerra oggi si combatte anche e soprattutto con i media. O meglio: manipolando i media. Osama Bin Laden ha mostrato la via con la spettacolarizzazione degli attentati e la sapiente miscela di minacce e silenzi seguiti all’ 11 settembre, gli Hezbollah hanno imparato la lezione. E i giornalisti sono diventati gli strumenti inconsapevoli delle manovre dei guerriglieri del Partito di Dio. Non tutti i media, per fortuna, anche perché le tecniche utilizzate nel sud del Libano sono risultate spesso artigianali e dunque individuabili. La Reuters ha ritirato una sequenza di foto in cui il fumo nero che si alzava sopra Beirut era stato inspessitito da un fotografo libanese. Il New York Times ha ritrattato l’immagine di un morto tra le macerie di Tiro, poi risorto. La TSI è stata la prima emittente di lingua italiana a rilanciare la notizia, segnalata da altre emittenti europee, sulla strana coincidenza dei soccorritori somiglianti. Alcuni media anglosassoni hanno scoperto che la notizia diffusa il 24 luglio secondo cui ad Hadaj due autoambulanze erano state colpite deliberatamente dagli israeliani era falsa: i due veicoli avevano dei buchi al centro della croce rossa dipinta sul tetto e proprio al posto della sirena. Più che buchi, erano buchetti provocati da qualche martellata sferrata in tutta fretta per simulare un attacco dall’alto.
Le scoperte dei blogger
E ancora:qualche blogger ha scoperto altre curiose incongruenze. Ad esempio lo stesso pelouche di Topolino, naturalmente immacolato, è stato fotografato tra le rovine di Sharif Karim il 28 luglio e a Ben Curtis il 7 agosto. O ancora: sempre a Sharif Karim sono stati fotografati orsetti e tigrotti senza neanche un filo di polvere sopra cumuli di macerie. E in molte altre località del Sud del Libano sono stati immortalati tricicli (sempre fiammanti), biciclette (pulitissime), bambole (intonse)e fotografie nemmeno spiegazzate delle giovani vittime, sempre tra i detriti anneriti. È quasi superfluo rilevare che quegli oggetti sono stati piazzati ad arte, verosimilmente dallo stesso fotografo per commuovere l’ignaro spettatore e mettere in cattiva luce Israele.
Pare che Hezbollah abbia persino sequestrato la cassetta girata da operatori della Cnn. La ragione? Avevano filmato un quartiere in cui i danni alle infrastrutture civili erano risultati minimi, dopo un raid degli aerei con la stella di Davide. E dunque quel video non andava mostrato. Il cinismo degli Hezbollah è raggelante, eppure tutt’altro che anomalo. Sia chiaro: i bombardamenti di Israele ci sono stati davvero e la popolazione civile ne ha pagato spesso il prezzo. Ma la manipolazione delle immagini e delle notizie (i morti di Cana sono stati 28 e non 60 come era stato detto)ha consentito ai guerriglieri di vincere la guerra delle emozioni: l’opinione pubblica araba ha sostenuto compatta la loro «eroica resistenza contro il gigante sionista » e oggi Nasrallah è il leader più popolare tra le folle musulmane. Israele ha perso la guerra dell’immagine, non solo nel mondo arabo, ma anche in quello occidentale: il suo comportamento è apparso ai più esagerato, inopportuno e addirittura disumano per i danni inferti alla popolazione civile. Ed è strano che il governo di Gerusalemme si sia lasciato sorprendere: oggi i conflitti si vincono anche, e talvolta soprattutto, combattendo la guerra dei media.
L’arma in più
Tanto più che a ricorrere a queste tattiche non sono solo organizzazioni fanatiche o terroristiche, ma anche gli stessi governi del mondo libero e occidentale. Talvolta persino in tempi di pace. Ma soprattutto, come è ovvio, in tempi di guerra. Come ci riescono? Grazie a una figura che è quasi sconosciuta al grande pubblico: lo spin doctor, ovvero uno specialista della comunicazione che, operando nell’ombra, travalica i limiti di una corretta informazione istituzionale. La recente guerra in Iraq è risultata infarcita di scoop mediatici impiantati ad arte. Uno su tutti: l’abbattimento della statua di Saddam Hussein. La ricordererte tutti: è l’immagine simbolo della caduta del regime baathista.
Ma è un falso. O meglio: è una riuscitissima messinscena, come, a distanza di tre anni, hanno ammesso alcune fonti dell’esercito americano. Quel giorno il Pentagono indusse poche centinaia di iracheni ad assembrarsi per festeggiare la liberazione e sfogare la propria rabbia contro il dittatore. Nel momento culminante della manifestazione sbucarono una gru e un blindato che provvidenzialmente aiutarono i dimostranti a divellere il monumento. Il tutto di fronte all’albergo dei giornalisti, estasiati nel poter filmare una scena tanto significativa. Tuttavia quella manifestazione era anomala perché gli abitanti di Bagdad non avevano salutato l’arrivo dei soldati Usa con manifestazioni di giubilo: se ne erano rimasti rintanati in casa. Ed era strano che improvvisamente un gruppo di cittadini rompesse improvvisamente quella diffusa, condivisa, gelida indifferenza.
Inganno riuscito
Qualche esperto inviato di guerra se ne accorse e sollevò alcuni dubbi, peraltro flebilmente. Ma il 99,9% dei media non si insospettì. Come spesso accade in queste circostanze, quando la verità venne scoperta, pochi mezzi di comunicazione ne diedero conto e ancora oggi la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica è persuasa che ad abbattere la statua siano stati spontaneamente i civili iracheni e non uno sparuto drappello di manifestanti compiacenti.
Basta uno spin doctor a elaborare una rappresentazione tanto sofisticata? Ovvio che no. Operazioni di questo tipo di solito sono affidate a società di pubbliche relazioni private. Quella più influente di Washington è la Rendon, sconosciuta agli stessi giornalisti, nonostante sia uno dei colossi del settore. Ha assistito il governo americano in tutte le crisi internazionali (tranne la Somalia) dal 1989 ad oggi. Il suo fondatore, John, in uno dei suoi rari interventi in pubblico spiegò con queste parole un episodio epico della prima Guerra del Golfo, quella del ’91: «Vi ricordate la liberazione del Kuwait? In tv avete visto centinaia di kuwaitiani sventolare bandiere americane all’arrivo delle truppe Usa. Vi siete mai chiesti come riuscirono i kuwaitiani a procurarsele dopo essere stati sotto occupazione per sette lunghi e dolorosi mesi? Sapete già la risposta. Gliele ho date o ». È un assaggio della sua arte, quella di orientare i media a loro insaputa. È ancora Rendon a instradare il Gruppo Lincoln, un’altra società di PR, che un paio di anni fa firmò col Pentagono contratti per 45 milioni di dollari, in teoria per una «campagna pubblicitaria e di pubbliche relazioni volta ad informare accuratamente gli iracheni sugli obiettivi della coalizione e ottenere il loro supporto». In realtà il gruppo Lincoln faceva pubblicare sulla stampa locale articoli scritti in apparenza da giornalisti locali, ma redatti da specialisti dell’esercito Usa, tradotti in arabo e firmati con uno pseudonimo. Le magagne della Lincoln furono scoperte dal New York Times, ma purtroppo non sempre la stampa riesce a smascherare questi tentativi di condizionamento. Anzi, a dir la verità, accade piuttosto raramente: e i media finiscono per essere gli strumenti inconsapevoli delle manovre dei manipolatori.