Difficile di questi tempi essere un editore

13 Febbraio 2013 • Digitale, Editoria • by

La pubblicità non riesce a sostenere l’economia dei giornali. I ricavi si sono contratti di anno in anno rendendo più complicato il processo di rinnovamento. L’affermazione di canali digitali alternativi alla carta stampata, determinata da abitudini espresse da un pubblico anagraficamente plasmato nell’era delle nuove tecnologie, mette in discussione l’assetto dei provider dell’informazione.

I giornali che affondano le proprie radici nella tradizione hanno intrapreso un percorso di sostenibilità, proteggendo quanto possibile il business della carta e, in parallelo, procedendo a creare le basi per consolidare quello che in prospettiva è destinato a diventare il canale primario di accesso, ovvero la dimensione digitale declinata in base alla logica web, tablet, smartphone o altro futuribile media.

Peccato che il risultato complessivo di queste operazioni non sia ancora sufficiente a compensare le perdite che si evidenziano nei bilanci degli editori. La carta continua, infatti, a perdere valore senza che vi sia un effetto salvifico del digitale. Quest’ultimo comparto, come più volte ripetuto, non è in grado di generare flussi di ricavi che possano controbilanciare la diminuzione dei volumi di fatturato cartacei . Esistono eccezioni, certo, ma la realtà appena descritta è quella che accomuna la stragrande maggioranza dei quotidiani.

Di fronte a questo scenario le reazioni sono pressoché scontate. Da una parte si tenta di procedere a ristrutturazioni e razionalizzazioni aziendali e di gruppo che portano con sé, inevitabilmente e sempre, una riduzione del personale, vedi ultime iniziative annunciate nel Gruppo Rcs,  dall’altra si ragiona su una diversa collocazione degli spazi redazionali rinunciando a parte della propria storia e operando un trasferimento in immobili meno costosi. Obiettivo primario e vitale per tutti: rendere più profittevole il business digitale nel più breve tempo possibile.

Ma al netto di queste operazioni il piatto langue poiché, come dimostra quanto succede negli Stati Uniti, nel 2012 per ogni dollaro guadagnato sul digitale se ne sono persi 16 sulla carta stampata (nel 2011 il rapporto era 1 a  7).

La domanda delle domande è, quindi, se possiamo credere che, una volta innescata una nuova prossima ripresa economica, la pubblicità possa, da sola, salvare il giornalismo. Forse, devono essere pensate strategie alternative, modelli di business alternativi.

Gli esempi riportati in un recente studio pubblicato dal Pew Research Center’s Project for Excellence in Journalism, intitolato “Newspapers Turning Ideas Into Dollars: Four Revenue Success Stories, e incentrato sulle iniziative messe a punto da quattro giornali a tiratura locale, dimostrano che esistono delle soluzioni, ma che queste possono essere realizzate se esiste una reale disponibilità al cambiamento.

Gli esempi citati nello studio americano sono ben descritti nel blog Il Giornalaio. C’è chi, è il caso di The Deseret News, ha separato la strutture editoriale, creando due business unit, una dedicata alla carta, una al digitale, nella convinzione che il successo sui nuovi media possa essere ottenuto più rapidamente in assenza dell’implicito freno che può derivare dalla nomenklatura della carta.

C’è chi, The Columbia Daily Herald, ha lanciato nuove riviste puntando a mercati verticali considerati promettenti, come lifestyle e settore immobiliare. C’è chi, The Santa Rosa Press Democrat, si è orientato alla creazione di una struttura di servizi marketing digitali per le aziende. Tutte iniziative volte a una profonda diversificazione che hanno consentito a queste organizzazioni di recuperare profittabilità, sia sulla carta che sul digitale.

Tutto ciò rende evidente che un allineamento delle strutture editoriali alle attuali dinamiche di mercato è possibile, ma occorre essere disposti a cambiare, mettere in discussione il passato e avere immaginazione.

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