Tanto rumore mediatico a discapito della verità

13 Febbraio 2012 • Etica e Qualità • by

Anche a volerla scansare, la parola “eroe” torna incessantemente nella marea di fogli stampati dedicati al naufragio della Concordia. Da una parte sta l’ortodossia della cronaca e del giornalismo, concentrata sui fatti, l’individuazione delle responsabilità e la ricerca della verità. Dall’altra c’è l’arte della fiction, la capacità spesso creativa di trasformare i protagonisti in personaggi, di distinguere tra buoni e cattivi, di trarre lezioni morali. Temi giornalistici come il naufragio della Concordia dimostrano che questa distinzione è decisamente superata. Il quadro che emerge a un mese dal naufragio è quello di un giornalismo che si ibrida con altre forme narrative, che asseconda tendenze più o meno recenti e che inoltre avvia una riflessione su se stesso. Perciò è interessante osservare senza pregiudizio le declinazioni e i registri adottati dal giornalismo nazionale ed estero nel raccontare le vicende della Concordia. Vediamo alcuni casi paradigmatici.

Reality e memoria

Un mese dopo il naufragio, il Corriere della sera pubblica “il memoriale”. La foto e la storia di ciascuno dei morti è accompagnata dal commento di Marco Imarisio, che osserva: “Appena un mese, e questi volti ce li stiamo dimenticando”. I trenta giorni di racconto giornalistico  stavano per concludersi con un silenzio totale, prima che Mediaset pubblicasse il video della plancia e che scattasse l’anniversario. Sei giorni dopo la tragedia, invece, l’attenzione era ancora altissima: il 18 gennaio Repubblica dedicava alla vicenda 11 pagine a partire dalla prima. Sul Corriere la Concordia arrivava a pagina 9. Anche la televisione faceva da cassa di risonanza continua alla notizia, con i vari speciali e l’immancabile modellino di Bruno Vespa. Arrivati al 26 gennaio invece la pagina riservata alla Concordia è una sola, la 20 su Repubblica, e il tema è diventato quello ambientale. Se dovessimo rappresentare su un grafico la copertura mediatica che la Concordia ha avuto sui quotidiani mainstream, osserveremmo una disparità tra le prime due settimane, in cui la vicenda viene seguita ora per ora e ogni novità acquista uno spazio ingombrante, e il resto dei giorni. Una caratteristica che non dipende solo e tanto dalla distribuzione temporale della storia e delle novità giudiziarie, quanto da una tendenza giornalistica. Un caso paradigmatico di questa tendenza è stato di recente quello dell’omicidio di Sarah Scazzi, seguito con attenzione quasi morbosa dai media per poi lasciar cadere quasi nel silenzio le successive novità giudiziarie. Meccanismi narrativi che si imperniano sul forte potere di identificazione  di una vicenda – Sarah è una giovane ragazza come tante in un paesino come tanti, i dispersi della Concordia sono gente comune e “avremmo potuto essere al posto loro”. Forse ha ragione Imarisio, quei volti della Concordia li dimenticheremo, ma la questione è soprattutto se arriveremo a leggere come la storia è andata a finire, e se un eventuale capovolgimento delle responsabilità troverà lo stesso spazio di quelle individuate oggi sui giornali. A certe perversioni giornalistiche fa da contraltare stavolta una metariflessione:  il giornalismo comincia anche a riflettere su se stesso e gli esempi non mancano. Un caso evidente è quello del TgLa7, in cui il direttore Enrico Mentana lascia trasparire più di una volta un certo disturbo per l’attenzione mediatica quasi compulsiva che la vicenda sta attirando. Tant’è che l’11 febbraio sera, quando la questione ritorna per lo scoop del video sulla plancia, la conduttrice sottolinea che “dobbiamo, tornare a parlarne”.

Fiction e Parodia

Ma la questione è soprattutto come se ne parla, non solo quando. Proprio concentrandoci su questo aspetto troveremo che il giornalismo oltrepassa la cronaca e si fa “finzione”. Non è necessario dire cose non vere o sconfinare nel cattivo gusto per trasformare il fatto in finzione, e i giornali italiani lo dimostrano bene. Un caso interessante è quello dell’instant book pubblicato dal Corriere e curato da Imarisio e Sarzanini. L’obiettivo dichiarato del libro rimane la ricerca della verità (scopo giornalistico), ma il registro narrativo sconfina in quello del racconto. Un ibrido in cui la verità da indagare diventa anche la piega intima dei personaggi. E per quanto i due autori dichiarino più volte che “non bisogna cercare eroi”, tutta la costruzione narrativa del libretto pare andare nella direzione opposta: la “lezione”, la morale sta proprio in “quei grandi gesti individuali che andrebbero citati ogni volta che si parla del comportamento di Schettino” (pag. 70). La chiave del libro sta proprio in questa tensione tra cronaca e racconto, realtà e finzione, protagonisti e personaggi. La tendenza al giudizio morale e a puntare il dito su cattivi e buoni si trova con diverse sfumature anche nella stampa tradizionale. Mercoledì 18 gennaio, il Corriere fa parlare l’immagine: De Falco e Schettino in foto nella stessa posizione, l’uno affiancato all’altro, fanno da contrappunto al catenaccio sul “vada subito a bordo”. Lo stesso giorno Repubblica si spinge oltre e in prima pagina parla delle “telefonate della vergogna”. Il titolo fa parlare Schettino: “Si, ho sbagliato manovra”. E al colpevole fa da contraltare l’eroe, che ancora una volta appare tale nel suo negare di esserlo: “L’altro capitano, L’eroe non sono io”, è il titolo del pezzo di Bonini e Mensurati. In particolare nella prima settimana, in cui l’attenzione dei media sulla vicenda è massima, è effettivamente soprattutto sul comandante Schettino che si concentra l’attenzione. Bisognerà aspettare qualche giorno e pagina perché il lavoro giornalistico punti sulle responsabilità della compagnia di crociera Costa e di Carnival che ne è proprietaria, mentre di quelle eventuali della Capitaneria  sull’”inchino” quasi non si trova cenno.  Il risultato è paradossale: quando il 24 gennaio, più di 10 giorni dopo la tragedia, Rampini fa notare su Repubblica l’anomalo silenzio del patron  americano della Carnival, intanto l’America ha già riso di Schettino ad esempio durante il David Letterman Show. La telefonata del “vada a bordo cazzo” diventa il titolo di apertura di giornali e tg stranieri, in Francia come in Germania e negli Stati Uniti. La tendenza a far cadere sul Capitano la gogna mediatica si concilia nel caso di alcuni media internazionali con la ricerca dell’idioma, del tratto tipico dell’italianità. L’idioma (l’italianità stereotipata) e l’idiota (Schettino e la sua incoscienza) sommati insieme sfociano nella parodia. Un esempio evidente è dato da David Letterman che nel suo show serale usa come intermezzo un attore vestito da capitano della Concordia e ironizza apertamente su Schettino, ma casi analoghi si trovano sulla stampa.

E se Der Spiegel con un editoriale di Jan Fleuschhauer non si sorprende che il capitano fosse un italiano, c’è da chiedersi che fine abbia fatto in tutto questo rumore mediatico l’individuazione delle responsabilità che vanno ben oltre confine. Sono proprio queste che, superata l’emergenza, consentono di esercitare un controllo critico da parte del lettore sulla realtà.

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