Faccia a faccia a Perugia tra giornalisti d’inchiesta e portavoce governativi
Non esiste più il giornalismo di una volta… e lo stato di salute dei media è tutt’altro che confortante. Parola dei grandi giornalisti, esperti e studiosi della comunicazione. Carl Bernstein – firma di prestigio del Washington Post, reso famoso negli anni Settanta dall’inchiesta Watergate – e Alaistar Campbell – portavoce dell’ex Primo Ministro inglese Tony Blair, sono solo alcuni dei nomi illustri presenti alla seconda edizione del Festival Internazionale di Perugia per affrontare con particolare attenzione e a più riprese un tema scottante e difficile come quello del rapporto tra informazione e potere.
Se in passato il giornalismo poteva vantarsi di inchieste importanti che hanno contribuito alla ricerca di verità scomode (come quella del Watergate a metà degli anni Settanta), oggi, dopo l’ultima Guerra in Iraq e il corollario della disinformazione intorno alle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, la situazione appare molto cambiata.
C’è una sorta di commistione tra informazione e potere, in cui si fatica a distinguere il ruolo che a ciascuno compete. Il potere talvolta abusa delle sue funzioni e si circonda di una comunicazione pianificata, mirata e manipolatrice per far passare il proprio messaggio e giustificare le proprie azioni. Mentre l’informazione – sotto pressione per la concorrenza dei nuovi media e spesso privata del tempo e delle risorse necessarie per condurre inchieste approfondite – ha la tendenza a non verificare le proprie fonti e a dare per vere le notizie che passano i poteri forti.
Cani da guardia del potere
Come si è giunti a questo punto, cosa differenzia il giornalismo di oggi da quello del passato? Che fare – da un lato – per consentire all’informazione di ritornare al suo originario ruolo di watchdog (cane da guardia) del potere e – dall’altro – per spingere i sistemi governativi e istituzionali a considerare l’informazione un potere essenziale per il controllo e la garanzia della democrazia? Ecco alcuni dei principali quesiti affrontati nel corso del Festival perugino.
Secondo Carl Bernstein la responsabilità dei giornalisti risiede nel cercare e ed ottenere giorno per giorno la migliore versione possibile della verità. I giornalisti devono sapere che le persone che lavorano per il governo e le istituzioni sono sì delle risorse preziose, ma ad ogni loro dichiarazione bisogna sempre chiedersi «È vero?».
«Poi non dimentichiamo che i tempi sono cambiati» – aggiunge.
«Oggi le grandi aziende di comunicazione come quella di Rupert Murdoch che possiedono tv, carta stampata e quant’altro, guardano anzitutto al profitto. Non vogliono investire in grandi storie quanto piuttosto produrre notizie sensazionali e scandalistiche create ad hoc che attirano la massa per un guadagno nel breve termine. I giornali a differenza di 30 anni fa, non illuminano, ma riflettono una cultura della negatività ».
Non è della stessa opinione Alastair Campbell – tra l’altro ex giornalista del Daily Mirror che continua «ancora oggi a sostenere la decisione di entrare in Guerra. Bisognava prendere delle de¬cisioni in base alle informazioni disponibili in quel momento», ha detto.
Concorda con il celebre collega, invece, su una certa cultura della negatività della società inglese che l’informazione riflette in tutto e per tutto. «I nuovi media, l’informazione in ogni dove e a tutte le ore hanno impoverito la professione giornalistica. Spesso I giornalisti inventano delle storie solo perchè sono delle buone storie. Noi addetti alla comunicazione del governo Blair» – dice – «abbiamo professionalizzato la comunicazione.
PARLANO PETER EISNER E KNUT ROYCE (GIÀ PREMIO PULITZER)
Per cercare di capire che cosa non funziona nel rapporto tra informazione e potere e, soprattutto, per scoprire se il giornalismo d’inchiesta è davvero in difficoltà, abbiamo ascoltato altre due autorevoli voci dell’attuale panorama internazionale: Peter Eisner – numero due agli esteri del Washington Post–e KnutRoyce–vincitore di tre premi Pulitzer.
PETER EISNER: «Certamente. Infatti bisogna ricordare che nel 2002, mesi prima dell’invasione dell’ Iraq, testate come il Washington Post e il New York Times si sono pubblicamente chiesti se vi erano o meno le prove per affermare che Saddam Hussein possedesse le armi di distruzione di massa. Il problema è che gli editori non hanno messo la notizia in prima pagina interno del giornale, dove era meno visibile.
Il Philadelphia Inquirer invece ebbe il coraggio di dubitarne in prima pagina. Ma negli Stati Uniti una notizia finchè non esce sul New York Times o sul Washington Post
non è una notizia».
Qual è la vostra tesi in merito alla disinformazione che media e potere hanno diffuso nell’opinione pubblica a quel tempo?