“Ci scusiamo per l’errore”

20 Aprile 2009 • Etica e Qualità • by

Neue Zürcher Zeitung, 17.04.2009
Regret the ErrorCorreggere i propri errori rafforza la credibilità dei media?
Nei quotidiani americani quella di correggere e pubblicare i propri errori  è un’abitudine diffusa. Non è lo stesso per quelli europei. “Quanto più qualcuno attira l’attenzione, tanto più spesso diviene vittima di errori giornalistici – questa è la regola”,  è quanto  Craig Silverman afferma sul suo blog (www.RegretTheError.com) nell’ annuale bilancio degli errori giornalistici.
Già l’anno scorso, il giornalista dei media aveva dimostrato compiaciuto come il nome ed il cognome di Obama avesse messo in difficoltà non pochi giornalisti. Il notiziario della CNN e il giornale scandalistico New York Post, ad esempio, lo avevano chiamato  “Osama”.

Silverman, che nel frattempo si è imposto come autore di libri, sottolinea un punto fondamentale: in America, contrariamente all’Europa, si concorda sul fatto che gli errori devono essere corretti, e che la loro spontanea rettifica rilancia la credibilità delle redazioni. “L’accuratezza è il fondamento su cui poggia tutto il resto: contesto, interpretazioni, dibattiti, l’intera comunicazione pubblica. Se il fondamento non regge, tutto il resto ne viene danneggiato”, sostengono Bill Kovach e Tim Rosenstiel, che, con il Committee of Concerned Journalists, si sono posti a capo del movimento che esige qualità nel giornalismo.
Il 61% dei servizi contiene degli errori
Altrettanto importanti sono gli sforzi di ricerca che permettono di individuare gli errori nei servizi di cronaca. Già nel 1936, Mitchell Charnley, all’epoca capo del servizio di una testata locale nonché docente all’università del Minnesota, ha presentato il primo studio sistematico. Ha raccolto complessivamente 1000 articoli da tre testate locali e li ha rispediti ai protagonisti degli stessi, citati come fonti nei contributi. Con il loro aiuto ha scoperto che quasi la metà (46%) degli articoli presi in esame conteneva errori. Il suo modo di procedere continua fino ad oggi ad influenzare la ricerca nel settore. Nel frattempo lo studio di Charnleys è stato ripetuto più volte. La tendenza  è che a lungo termine il numero di errori aumenta. Il 61% dei servizi realizzati e degli articoli di giornale contiene almeno uno sbaglio. Lo ha determinato tre anni fa Scott R. Maier dell’università dell’Oregon nello studio più importante mai realizzato finora, in cui sono stati esaminati 4800 articoli di 14 giornali diversi.  Maier, di recente, ha trascorso qualche mese in Ticino, presso l’Università della Svizzera italiana di Lugano, dove il suo studio è stato ripreso per la Svizzera e per l’Italia.

Quasi tutti i giornali americani rettificano sempre le notizie false nei “correction corners”, ossia in spazi fissi all’interno della testata. Ciò li differenzia in maniera positiva dalle manovre di occultamento e dal tacere le proprie inadeguatezze tipiche dei media europei. Ancora un paio di anni fa, tuttavia, la grande maggioranza (58%) dei giornalisti statunitensi credeva che alla scoperta di un errore di cronaca seguisse “immancabilmente” una rettifica.  I lettori e le lettrici però erano molto più realistici: solo uno scarso 20% concordava con questa affermazione.

Se si prendessero le percentuali di errori rivelate da Maier come parametro di confronto, occorrerebbe – così dice il ricercatore – “quasi un’intera pagina di correzioni, se non di più”. Esaminando dieci fra le più importanti testate regionali, egli ha scoperto che, in netto contrasto con le autovalutazioni dei giornalisti, più del 98% di tutti gli errori non è stato rettificato (cfr. NZZ del 3.3.2006). In questo modo Maier tira forse acqua ai mulini di tutte le redazioni europee, che non si sforzano affatto di compiere rettifiche? No, poiché altri studi confermano chiaramente che quasi due terzi (63%) dei lettori americani sanno apprezzare gli errata corrige.

La sfida consiste quindi piuttosto nel correggere in modo più responsabile le mancanze degli articoli giornalistici, in particolare quando sono disinformativi.  Un primo passo sarebbe l’ammissione che le conoscenze fornite dalla ricerca sugli errori potrebbero essere utili per ridurne la frequenza. “Per introdurre un sistema di correzione sistematico ed esteso a tutti i campi anziché casuali c’è bisogno di un clima di dialogo aperto all’interno della redazione”. Piuttosto che imporre è necessario un lavoro di persuasione. Ma anche quando questo riesce, rimangono due problemi: “non ci sono riconoscimenti per una cronaca precisa”, dice Maier. Proprio perché  l’accuratezza viene intesa come qualcosa di ovvio, i singoli individui mancano di stimoli che li portino a badarvi eccessivamente. In particolare i giornalisti esperti contano sul fatto che la maggior parte delle fonti, per apatia o disinteresse, per paura o per un calcolo di costi-guadagno non reagiscono agli errori con delle smentite. E per lo più non ci sono neanche sanzioni in caso di mancata rettifica.

Il Chicago Tribune
Il progetto fino ad ora più accurato per ridurre gli errori è stato avviato alla fine degli anni ’90 dal Chicago Tribune. Non senza un notevole impegno burocratico-contabile. Ogni errore veniva registrato sistematicamente, includendo chi lo aveva commesso e come aveva potuto verificarsi, chi lo aveva scoperto e se si sarebbe potuto evitare. Da ultimo è stato redatto un “Error Policy Manual”, un vero proprio manuale su come evitare gli errori.
“Come ci si può immaginare, il tentativo non ha scatenato ondate d’entusiasmo all’interno della redazione. Rilevare gli errori era fastidioso. I reporter e i redattori temevano di essere puniti per la loro negligenza. È vero anche che queste paure si sono poi attenuate e i caporedattori sono riusciti a dissiparle. I programmi di formazione in questo campo non erano infatti indirizzati esclusivamente a coloro che incespicavano con particolare frequenza. Al contrario, ai workshop sono stati invitati tutti i reporter indistintamente, che si trattasse di volontari o di vincitori del premio Pulitzer”. L’allora caporedattore Howard Tyner, in cinque anni è riuscito quasi a dimezzare il numero degli errori scoperti: secondo calcoli statistici, da 4,5 a 2,5 errori per pagina.
Quante probabilità ci sono che altre redazioni sviluppino iniziative del genere? Scott Maier non è particolarmente ottimista: i singoli giornalisti continuano a provare l’impulso di nascondere gli errori, invece di mettersi volontariamente alla berlina, a cui si può del resto paragonare l’errata corrige quando si pensa al rapporto interno con i colleghi di redazione. Anche se nella rettifica non venissero citati il nome dell’autore o le sue iniziali, all’interno della redazione tutti saprebbero a chi è da attribuire lo sbaglio. Così, eseguendo una scrupolosa rettifica, il singolo danneggia la propria reputazione, mentre i suoi colleghi se la prendono molto più comoda. Così Maier spiega in maniera plausibile perché l’impegno dei caporedattori ad imporre le correction policies continua ad avere chiari limiti anche negli USA.

Jack Shafer della rivista online Slate ha ragione, quando in definitiva considera l’evitare e il rettificare gli errori un problema economico, una questione di spese e guadagno. Secondo lui, valutando i costi in rapporto all’utilità di evitare errori, i giornali hanno ottenuto tutto ciò che potevano nella maniera più sensata. Su questo punto non concorda tuttavia Scott Maier, che prima di dedicarsi alla ricerca ha lavorato egli stesso per anni in una redazione. Secondo lui, per raggiungere maggior precisione e credibilità, reporter e redattori dovrebbero semplicemente continuare a porsi due domande: “Come lo so?”, per identificare gravi errori fattuali, e “cosa proveranno i protagonisti della vicenda, leggendo la storia?”, per evitare errori “soggettivi” più leggeri.

Maier ammette che gli errata corrige non sarebbero in grado di risolvere il problema di credibilità del giornalismo: “Il modo in cui una storia viene presentata continua ad essere più importante dell’esposizione corretta di tutti i fatti. Ciò che conta veramente sono le tinte, le fonti, la rilevanza, la prospettiva. Maier riesce a capire perfettamente perché le redazioni in Svizzera e in Germania erano così restie ad attirare l’attenzione sui propri errori.

Ma dalla sua prospettiva americana la correzione degli errori è “un imperativo” per quattro validi motivi. Innanzitutto, un giornale attendibile deve eliminare errori e malintesi. In secondo luogo, è più probabile che si ripetano errori che non sono stati rettificati. Terzo, il fatto di rivelare gli errori aumenta la propria credibilità. Quarto, nel mondo odierno della comunicazione informale la precisione è ormai il criterio con cui i giornalisti professionisti si possono distinguere dai blogger e dai “giornalisti partecipativi”.

L’infaticabile Craig Silverman raccomanda di trasformare la stesura di rettifiche in un’ “arte”. Come esempio cita Ian Mayes, da molti anni difensore civico del britannico Guardian. Egli, durante il suo mandato ha ricevuto 90.000 lamentele dei lettori e ha redatto 14 000 errata corrige per il suo giornale. Ne ha fatto dei veri e propri “gioielli”, ma ogni volta ha chiarito in poche parole quanto seriamente lui si occupi degli errori, quando hanno causato danni. Una chicca del suo senso dell’umorismo britannico: ieri a pagina 2 abbiamo sbagliato di nuovo a scrivere Morecambe, la città nel Lancashire. Ci succede sempre più spesso.” E poi sei mesi più tardi:”La mancanza di rettifiche di ieri è dovuta ad un guasto tecnico, e non ad un improvviso accesso di infallibilità giornalistica.

* Silverman, Craig (2007): Regret the Error, New York: Sterling Publishing

Traduzione di Marta Haulik e Mariangela Baglioni