Il futuro del pubblicismo in Italia secondo Gino Falleri

15 Maggio 2013 • Cultura Professionale, Giornalismo sui Media • by

Al crescere del numero dei pubblicisti decresce quello dei praticanti. Non è una formula matematica ma uno dei risultati dell’indagine proposta dall’Ordine Nazionale dei Giornalisti, “Il pubblicismo 2010/1012. Tre anni dati alla mano”. Il periodo analizzato comprende il triennio che va dal 31 dicembre 2009 al 31 dicembre 2012, rapportato anche ad alcuni dati significativi, dal 1994 al 2009, che erano stati precedentemente oggetto di un altro incontro. Diciotto anni in totale per comprendere il percorso evolutivo del pubblicismo in Italia.

Ne parliamo con Gino Falleri, vice presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio.

Quanto incide l’alto numero di aspiranti giornalisti nel generare una situazione di forte difficoltà a trovare una stabilità economica con questa professione?

“Il giornalismo ha una forte attrazione tra i giovani. Ogni cittadino è libero di scegliere la sua strada secondo le proprie aspirazioni e mettendo in conto successi ed insuccessi. La situazione attuale è quella di una grande domanda e di una striminzita offerta e per giunta con compensi irrisori. Secondo LSDI, l’agenzia diretta da Pino Rea, i “giornalisti visibili” superano di poco i quarantamila”.

Secondo la ricerca curata da Vito Scisci, consigliere nazionale dell’Ordine, su 73.000 pubblicisti iscritti alla fine del 2012, 35.000 sono nell’albo da più di 15 anni e sono diventati “giornalisti a vita” anche se non eserciteranno più la professione, ma cosa significa “giornalisti a vita”?

“E’ senz’altro una bella domanda ed esige una rapida risposta, legata all’applicazione di due articoli: uno della legge istitutiva dell’Ordinamento della professione di giornalista e l’altro del regolamento di esecuzione. L’articolo 30 del dpr 115 del 4 febbraio 1965 stabilisce che i Consigli dell’Ordine almeno una volta all’anno debbono procedere alla revisione degli elenchi in cui è suddiviso l’albo. A sua volta l’articolo 41, quello dell’inattività, fissa il principio in base al quale coloro che hanno una anzianità d’iscrizione superiore ai 15 non possono essere cancellati dall’albo. La giurisprudenza del Consiglio nazionale ha superato in senso positivo le perplessità legate al “salvo i casi di iscrizione in altro albo, o di svolgimento d’altra attività continuativa e lucrativa”. Di qui la locuzione “giornalisti a vita”. Il modello italiano è unico ed isolato. E’ opportuno ricordare, per meglio inquadrare, che in buona parte dei paesi del mondo occidentale non si è giornalisti a vita. Il giornalismo è fungibile con altre attività.  Da noi si resta giornalisti come i militari in servizio permanente effettivo.

C’è un’altra anomalia su cui non sarebbe male approfondire. La legge, non il regolamento, afferma che il giornalista professionista deve avere l’esclusività professionale. In parole povere non gli sarebbe consentito di fare altro. In caso contrario “deve” essere pennato. Nella pratica non è così e i casi non mancano. Rimane nell’elenco di appartenenza, salvo rare eccezioni”.

Si nota poi il calo dei praticanti, passati in tre anni (dalla fine del 2009 al 2012) da 1928 a 1666: un secco -13,6%. Chiaro segnale del momento di crisi che vive il mondo dell’editoria. Nel Lazio siete in linea con questo quadro a tinte fosche?

“Le aziende editoriali non assumono più e se lo fanno è con il contagocce per via della crisi ed anche la tecnologia che limita l’intervento dell’uomo. Costituisce un problema oltremodo grave. Senza assunzioni, mi sia consentito l’accenno, i conti dell’Inpgi, l’ente erogatore delle pensioni ai giornalisti professionisti, possono andare in rosso. E una volta in rosso senza l’intervento dello Stato dovranno essere giornalisti in attività ed editori a fornire le dovute risorse. E’ una preoccupazione. L’Istituto, comunque, ha una dirigenza di alto valore e saprà ben risolvere gli eventuali problemi. Anche nel Lazio la situazione non è delle migliori. E’ sufficiente collegarsi al sito dell’Associazione della Stampa Romana per avere il termometro della situazione. Allo stato attuale le iscrizioni nel registro dei praticanti riguardano free lance e redattori di fatto. I primi dovrebbero alimentare il fondo della gestione previdenziale separata ed i secondi quello della gestione principale”.

Emerge anche un forte incremento delle donne pubbliciste, che entro il 2020 potrebbero raggiungere il numero dei pubblicisti uomini. In alcune regioni, per altro, il sorpasso è già avvenuto. In Basilicata nel 2012 i nuovi pubblicisti sono stati 34 uomini e 31 donne. In Puglia le donne sono state 167 mentre gli uomini iscritti 163. Anche in Sicilia tra i nuovi pubblicisti 125 sono state le donne e 120 gli uomini. Le donne 18 anni fa erano 9.329 per poi diventare 28.291 al 31 dicembre 2012. Gli uomini di contro erano 33.270 per diventare 46.022 nel 2012. Inoltre l’età media delle donne è sensibilmente più bassa rispetto ai colleghi uomini. La maggioranza delle iscritte va dai 30 ai 50 anni. Tuttavia non sono ancora molte le donne in posizioni dirigenziali nel giornalismo italiano…

“La costituzione repubblicana del 1948 pone uomini e donne sullo stesso piano. Lo afferma solennemente l’articolo 3. Tutti uguali di fronte alla legge e tutti uguali nelle attività intellettuali e produttive. Chi ha più capacità emerge e non sono a favore dei privilegi. Le donne sono più motivate”.

A che punto è la legge sull’equo compenso? Non c’è il rischio che sia un buco nell’acqua? La situazione di degrado e sfruttamento è a livelli altissimi. Il precariato arriva oltre i 40 anni, non parliamo più solo di precariato giovanile, come può muoversi l’ordine per arginare il fenomeno?

“E’ in alto mare e sono preoccupato. La Carta di Firenze è senz’altro una buona iniziativa. L’Ordine non è il sindacato. Deve rispettare una legge che fissa i suoi compiti, i quali riguardano soprattutto poteri accertativi-costitutivi e difesa del titolo professionale. Ha inoltre perso i poteri disciplinari. Può solo segnalare le infrazioni alle Carte deontologiche”.

Perché secondo lei devono esistere i giornalisti pubblicisti. E c’è bisogno di una rifondazione del pubblicismo?

“Sui pubblicisti, l’aristocrazia del giornalismo come diceva Alberto Bergamini, sono state dette tante parole, belle e non belle, e scritto una miriade di articoli. Hanno contribuito non poco ad affermare il diritto di informare e senza di loro l’informazione sarebbe stata monca, lacunosa. E non si può dire che manchino di professionalità. Ora siamo nel secondo decennio del Terzo Millennio ed è giunto il momento di fare discorsi nuovi ed in prospettiva. Per quanto mi riguarda sono a favore dell’albo unico, come si dice impropriamente nel gergo. Niente elenchi e tutti debbono sostenere un vero esame di Stato dinnanzi ad una commissione, con esaminatori in buona parte esterni. L’online è il futuro, poi sarà il mercato a selezionare, tenendo anche conto delle trasformazioni”.