Corriere del Ticino, 31.12.2005
Il «quarto potere» sotto la lente: come i giornalisti agiscono (anche) per interesse personale
Ai giornalisti piace sentirsi vittime della «razionalizzazione economica » nel campo editoriale pur sapendo che anch’essi non agiscono sempre per il bene comune: «baratti» con imprenditori e politici sono all’ordine del giorno. Ecco perché vale la pena di parlarne.
Infine in Svizzera c’è stato l’allarme pitbull, che solleva alcuni interrogativi sul ruolo dei giornalisti. Il giornale popolare Blick ha lanciato una memorabile raccolta di firme riuscendo a consegnare al consigliere federale Joseph Deiss una petizione sostenuta da oltre 175’000 persone per chiedere il divieto di questa razza di cane, iniziativa che nella sostanza può essere giusta ma che nelle modalità può sollevare alcuni interrogativi sul ruolo dei media. Il fatto di forzare deputati eletti democraticamente a firmare la petizione – se non lo avessero fatto il loro nome sarebbe stato pubblicato sulle pagine del giornale – implica infatti che il giornalista abbandoni il suo ruolo di semplice osservatore.
La reputazione incrinata del «quarto potere»
Influenza aviaria, invasione di cavallette, iniziative sui cani pericolosi – tre argomenti che non solo rappresentano cambiamenti fondamentali nella politica, nell’economia e nella società, ma che sono l’emblema di una lenta svolta nel giornalismo, le cui conseguenze diventano sempre meno prevedibili: il mito del «quarto potere» , del quale si è avvalso il giornalismo dopo il Watergate, oggi é meno seducente.
La definizione «razionalizzazione economica » fu riferita all’editoria per la prima volta negli anni Novanta. Osservatori e operatori dei media discussero di come le mutate condizioni economiche avevano avuto ripercussioni negative sul giornalismo. Alla luce dei notevoli guadagni nel settore dei media, fu aspramente criticato l’appetito di molti manager e speculatori di borsa per guadagnare sempre di più. Con il nuovo millennio furono soprattutto i giornali a passare un brutto periodo, perché si videro confrontati con Internet, giornali gratuiti, inserzioni pubblicitarie in calo, ma anche perché i lettori più giovani sembravano sempre meno disposti a leggere il giornale. Il modello aziendale del giornalismo di alta qualità era – ed è tuttora – in discussione.
I giornalisti sono sempre miracolosamente riusciti a porsi come «vittime» della razionalizzazione economica e mai come « attori » che agiscono per interesse personale. Che questa sia una valutazione errata, risulta evidente se si valutano in modo più approfondito gli argomenti trattati dai media nel 2005 da un punto di vista economico.
Anche i giornalisti sono cavallette?
All’invasione delle cavallette sul mercato finanziario tedesco fu accordato un grande spazio poiché Müntefering era riuscito a ridurre ad una semplice immagine un argomento astratto e altrimenti noioso per il pubblico. L’argomento dominò i media per settimane, ma alle parole non seguì alcuna iniziativa politica. Anche se sembra ovvio, nessuno si chiese se per caso anche il giornalismo, o forse soprattutto il giornalismo, fosse colpito dalla «sindrome della cavalletta ». Sciami di giornalisti si lanciano regolarmente su singoli argomenti e, con frenetico ronzio, spremono al massimo ogni notizia interessante. Dopodiché si alzano in volo, quasi tutti contemporaneamente, alla ricerca di un nuovo argomento da attaccare.
Giornalismo di branco
In questo ambito agli economisti piace parlare di « Tragedy of the commons»: un bene comune viene sfruttato finché non diventa inutilizzabile. Nell’esempio più classico si tratta di una proprietà comune, ad esempio un terreno da pascolo a disposizione di tutti a costo zero – ma soltanto, appunto, finché il bestiame non mangia anche l’ultimo ciuffo d’erba. Nel giornalismo la situazione è simile: ogni notizia, anche la più esclusiva, nel momento della sua pubblicazione, si trasforma da bene «privato» in bene «comune». Sia il giornalista che ha svelato lo scoop, sia chi divulga la notizia traggono un guadagno. Ma, nel momento stesso della sua pubblicazione, la notizia diventa un bene comune del quale possono appropriarsi tutte le redazioni. Gli operatori dei mezzi di comunicazione che optano per un «giornalismo di branco» si comportano come i contadini sul terreno di tutti – o come astuti investitori che vogliono avere successo con un dispendio minimo di energie.
Finché è redditizio, essere sulla cresta dell’onda è piacevole. Nel giornalismo l’onda può fruttare a lungo: probabilmente ognuno di noi ha già visto crollare le torri gemelle del World Trade Center una dozzina di volte. La Sars, la mucca pazza, l’antrace e lo scandalo delle donazioni alla CDU, l’ Unione cristiano-democratica tedesca, ci hanno fatto rimanere con il fiato sospeso per settimane, finché non fu detto e scritto tutto. Lo scandalo Clinton-Lewinsky ha richiamato l’attenzione dei media per mesi e mesi, mentre il conflitto di interesse del magnate dei media e primo ministro Berlusconi per anni.
Ricerche a basso costo
È un dato di fatto che per ricerche approfondite rimane sempre meno tempo – anche perché nel settore dei media vengono tagliati sempre più posti. Così i giornalisti devono allocare le poche risorse al meglio: per quale tema vale davvero la pena di impiegare tempo e denaro per fare le dovute ricerche? Ciò porterà ad un incremento degli indici di ascolto o di tiratura – e quindi anche a una sorta di profitto? Tutto sommato non è meglio lasciar il lavoro di investigatore a qualche collega per poi seguire in scia? Tanto più che alla fine al bel titolo ci arrivano tutti. Senza spendere nulla, beninteso.
L’esempio dell’influenza aviaria dimostra quali riflessioni di carattere personale si nascondo dietro ad alcuni titoli di giornale e preoccupanti collegamenti in diretta: l’argomento ha un alto valore informativo e riempie molte pagine perché affronta le angosce primordiali di milioni di persone verso una malattia invisibile che si propaga velocemente. Al contempo vengono però fatte poche ricerche. Gli esperti si offrono come persone di riferimento, mentre le agenzie di stampa danno ininterrottamente informazioni sul numero di animali deceduti o abbattuti in paesi lontani. Le uniche ricerche indipendenti sono quelle che verificano le vendite e la disponibilità di « Tamiflu » nelle farmacie locali. Analogamente è stata sfruttata dai media italiani l’ondata di segnalazioni sulla presenza di insetti e topi sui vagoni di Trenitalia.
Per dirla in altri termini: i giornalisti si buttano su certe notizie quando pensano di ricavarne anche un vantaggio in termini di audience o di vendite. Anche l’iniziativa del Blick, condivisibile nella sostanza, ha presumibilmente avuto le sue ricadute in termini economici e di tiratura. La logica del dare/avere non caratterizza quindi (più)solo il lavoro degli investitori economico finanziari, ma anche di molti giornalisti. Parlando con alcuni giovani giornalisti si sente parlare ancora spesso di contratti a termine e di miseri onorari a riga. Questo è legato molto di più a quel «capitalismo delle cavallette » di quanto i colleghi già affermati non vogliano ammettere. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se molti giornalisti finiscono per interessarsi a datori di lavoro più generosi, per esempio nel campo delle pubbliche relazioni, assicurandosi così un introito extra. Questo dà il via a un circolo vizioso che rischia di consumare ancora di più le risorse del giornalismo. Più materiale, se pur elaborato secondo rigidi criteri giornalistici, viene per così dire « regalato » ai giornali dalle agenzie o dai reparti PR, più grande sarà la tentazione di trasformare i comunicati stampa in offerte redazionali senza ricorrere a ulteriori ricerche. I media manager più concentrati sulle spese potrebbero usare questo fenomeno come scusa per diminuire ancora gli effettivi.
Informazioni sulla disinformazione
Influenza aviaria, piaga delle cavallette, allarme pitbull e altri esempi dimostrano che i giornalisti, al contrario dell’opinione comune, fanno anche calcoli economici. Vi sono però alcune implicazioni del proprio lavoro alle quali il settore cerca di sottrarsi. Senza dubbio i media sono molto importanti per la comunità se informano in modo obiettivo e disinteressato. Ma i costi degli effetti che i media accollano, spesso distrattamente, all’intera società, a singoli settori o persone per via della loro tendenza al sensazionalismo, quando distorcono le notizie o rinunciano a ricerche approfondite – e quindi alla fin fine non fanno altro che disinformare – dovrebbero trovare più spazio nelle discussioni pubbliche. Sarebbe quindi ora di aumentare la discussione sulla responsabilità sociale anche delle aziende editoriali. In modo da non far venire in mente a nessuno, un giorno o l’altro, di mettere la museruola ai giornalisti piuttosto che ai cani pericolosi.