Politica, giornalismo e pubbliche relazioni

2 Giugno 2005 • Media e Politica • by

Il Corriere del Ticino, 02.06.2005

Vari casi dimostrano che i legami tra l’Amministrazione Bush, le società di PR e i media sono sempre più stretti

È una guerra che va avanti da tempo: da una parte i governi, dall’altra i media stampa. I primi a difendersi, i secondi ad attaccare. In teoria; perché l’evoluzione – e soprattutto – l’abuso delle tecniche di comunicazione ha creato negli Stati Uniti una situazione di palese squilibrio, a favore del potere politico, grazie anche ai sempre più vacillanti standard etici dei giornalisti.

La notizia, rivelata dal quotidiano Usa Today ha suscitato l’indignazione di riviste prestigiose del mondo dell’informazione, a cominciare dalla Columbia Journalism Review. Si tratta di questo: Usa Today ha scoperto che uno dei più autorevoli commentatori di colore, Armstrong Williams, era sotto contratto con una delle più influenti società di Pubbliche Relazioni, la Ketchum Communications. Fin qui nulla di male: è plausibile che una società di PR richieda consulenze specifiche a giornalisti professionisti. C’è però un piccolo particolare: la Ketchum operava per conto del governo Usa, per l’esattezza del Dipartimento dell’istruzione, con l’incarico di organizzare campagne di sostegno alle decisioni dell’Amministrazione Bush su questo tema. E si dà il caso che Williams, nelle sue seguitissime rubriche, pubblicate da molti giornali americani, fosse un convinto sostenitore di tali programmi. Un impegno ben remunerato: 240 mila dollari, circa 290 mila franchi svizzeri. Un caso isolato? Non proprio, perché sull’onda dello scandalo è saltato fuori che anche un’apprezzata columnist della Washington Post, Maggie Gallagher, considerata un’autorità in tema di matrimoni e questioni familiari, ha stipulato due contratti per, complessivamente, 41.500 dollari (circa 50 mila franchi svizzeri) direttamente con il governo Usa, per scrivere articoli di supporto alle iniziative del presidente sul diritto… matrimoniale! E poi che un altro editorialista pro Bush, Mike McManus è stato pagato 4.400 dollari dal Ministero della Salute e dei servizi umani per «formare attivisti pro matrimonio». La Casa Bianca si è subito distanziata, dichiarando di non essere stata al corrente del contratto tra la Ketchum e Williams e, negli altri due casi, scaricando le colpe sul ministro Rod Peige, che all’inizio del secondo mandato è stato sostituito da Margaret Spellings. Poi Bush ha dichiarato che i soldi dei contribuenti «non dovrebbero essere usati per promuovere in questo modo i programmi dell’Amministrazione» e promettendo «che non pagheremo commentatori per sostenere le nostre iniziative. Il nostro programma deve reggersi sui propri piedi». Dichiarazione lodevole ma, purtroppo, subito smentita da un altro scandalo, recentissimo: quello riguardante i video comunicati stampa. Come nel caso della Ketchum, assistiamo alla triangolazione governo – società di PR- media. Questa volta nessuna corruzione, bensì un trucco sconcertante: perché quelle cassette diffuse nei circuiti televisivi e trasmesse da decine di televisioni locali, non avevano nulla del comunicato stampa, bensì erano finti servizi giornalistici, con tanto di finto giornalista, in cui si elogiava l’operato della Casa Bianca o del Dipartimento di Stato o del Pentagono. Novanta secondi (questo il tempo medio di un servizio televisivo) di propaganda pura, senza però che venisse indicata la fonte o perlomeno il committente: insomma il telespettatore non aveva modo di accorgersi dell’inganno. Colpa di Bush? Certo, ma ad inventare il trucco è stata l’Amministrazione Clinton. Sono dieci anni che queste cassette vengono diffuse. E forse per questo il governo Usa ha rifiutato di scusarsi e di rinunciare a questa… tecnica di comunicazione. I giornali sono insorti, il Center for Media and Democracy ha raccolto una petizione firmata da 40 mila persone e il Congresso Usa ha approvato, all’unanimità, una mozione di condanna dell’operato dell’Amministrazione Bush. È un segnale che l’America comincia ad accorgersi che qualcosa non va nel modo in cui viene gestita l’informazione pubblica.
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