Corriere del Ticino, 23.7.2005
Se «Gola profonda» del Watergate rimase anonima per 30 anni, oggi Judith Miller è in carcere per aver celato le sue fonti.
Il 6 luglio scorso è successo ciò che molti americani temevano: Judith Miller, reporter del New York Times, è stata incarcerata perché si è rifiutata di svelare l’identità delle proprie fonti giornalistiche di fronte a un magistrato. Niente arresti domiciliari: prigione, per quattro mesi, a meno che non si decida a tradire il proprio informatore. All’inizio di questa vicenda i giornalisti imputati erano due, ma all’ultimo momento Matthew Cooper ha deciso di testimoniare svelando ai magistrati il nome di chi gli ha passato la dritta. Ora si sa che si tratta di un pezzo da Novanta della politica Usa: Karl Rove, lo stratega elettorale e superconsigliere di Bush. Judith Miller, invece, ora è in carcere e l’opinione pubblica statunitense si interroga su quali possano essere le conseguenze di tale sentenza: l’arma della confidenzialità è di basilare importanza per il giornalismo, oggi come non mai. Una democrazia ha bisogno di una stampa in grado di raccogliere notizie indipendentemente dalle fonti ufficiali del governo: uno dei modi per rendere possibile questa ricerca è, appunto, quello di garantire ai giornalisti di poter mantenere segreta l’identità degli informatori che abbiano accettato di comunicare con il giornalista alla condizione che la loro identità non venisse rivelata nella pubblicazione. Il segreto redazionale è importante poiché spesso, se gli informatori rischiano ritorsioni, essi possono fornire indiscrezioni solo se hanno la garanzia di restare anonime.
Il giornalismo d’inchiesta, quello che osserva da vicino i potenti e li controlla portando alla luce eventuali scandali, fa spesso ricorso a queste fonti anonime. Negli Stati Uniti il segreto redazionale è garantito in 49 stati su 50, ma non a livello federale.
Nel nostro Paese esso è sancito dall’art. 17 della Costituzione svizzera. Se è vero che i giornalisti devono essere molto cauti e usare fonti anonime solo se non possono fare altrimenti, poiché il rischio di essere strumentalizzati è alto, è altrettanto assodato che per svolgere appieno il proprio ruolo di «quarto potere» la stampa non può fare a meno di questi informatori anonimi. Tutti i giornali autorevoli limitano l’uso di queste fonti, ma nessuno può impegnarsi a non utilizzarle in nessun caso. Lo scandalo Watergate, che portò alle dimissioni del presidente Nixon negli anni settanta, è il classico esempio dell’uso di questi informatori. Proprio qualche settimana fa, in giugno, è stata resa pubblica l’identità di Gola Profonda – la fonte che permise a Carl Bernstein e Bob Woodward di portare alla luce lo scandalo. È emerso che si trattava di Mark Felt, che all’epoca era il numero due del FBI. I due giornalisti del Washington Post sono riusciti a proteggere il proprio informatore per oltre 30 anni. È facile immaginare che se i due giornalisti non gli avessero potuto garantire l’anonimato, per il numero due del FBI non sarebbe stato facile fare determinate indiscrezioni. Senza questa garanzia di anonimato Nixon avrebbe verosimilmente portato a termine senza problemi il proprio mandato, senza subire alcuno scandalo. Oppure, se Felt avesse deciso di dare comunque le indiscrezioni ai due giornalisti, Bernstein e Woodward sarebbero finiti in carcere per non tradire la fiducia della propria fonte.
Le conseguenze di questa sentenza si fanno già sentire: Lucy Dalglish, direttrice di un’associazione di giornalisti americani che si dedica alla protezione della libertà di stampa fornendo assistenza legale a giornalisti, in una recente intervista ha affermato che questi si lamentano già di «perdere storie perché le fonti, in particolare quelle di Washington, iniziano a dire che non possono parlare poiché essi non sono in grado di proteggere il loro anonimato» .
Judith Miller vuole salvaguardare la capacità della stampa di ottenere informazioni quando l’unico modo è l’uso delle fonti anonime. Si consolerà pensando che anche Rove non se la passa bene. L’uomo più potente di Washington, dopo Bush, rischia di doversi dimettere.