Cia-Gate, la stampa e il potere politico

11 Novembre 2005 • Giornalismo sui Media • by

Il Corriere del Ticino, 11.11.2005

Ha beffato tutti. Pensavamo fosse la paladina della libertà di stampa. E invece… La giornalista Judith Miller ha passato 85 giorni in prigione per essersi rifiutata di rendere noto il nome dei propri informatori, nell’ambito dell’indagine avviata per scoprire chi aveva svelato ad alcuni giornalisti l’identità di un’agente della Cia sotto copertura, Valerie Plame. È il cosiddetto CIAgate e ora conosciamo il primo indagato: Lewis Libby, il potentissimo chief of staff del vicepresidente Cheney. Era lui una delle talpe.

Al momento dell’imprigionamento di Judith Miller l’intera comunità giornalistica, noi compresi, gridò allo scandalo: la libertà di stampa era minacciata nella sua sostanza. Mettere in dubbio il diritto dei giornalisti di proteggere le proprie fonti tocca infatti la sostanza del Primo Emendamento, che negli Stati Uniti sancisce la libertà di parola, di espressione e di stampa. Per essersi immolata per la difesa di questi nobili principi l’American Journalism Review, una delle più prestigiose riviste sul giornalismo, definì la giornalista del New York Times «un eroe americano».

Sono passate diverse settimane da quando la Miller decise di fornire la propria testimonianza al magistrato Patrick Fitzgerald e i fatti che sono emersi, ammette l’American Journalism Review stessa, «hanno ben poco di eroico.» Si è infatti capito che Judith Miller non è andata in prigione per difendere la verità, anzi. Ci è finita per difendere l’operato di uno spin doctor, un esperto di comunicazione al servizio del governo americano, che l’ha strumentalizzata per i propri fini passandole scoop che in realtà erano vere e proprie patacche. Essere usati dal potere politico è un rischio che ogni giornalista dovrebbe cercare di evitare: Judith Miller in questo ha certamente fallito.

Si tratta di un fallimento che non coinvolge solo la giornalista Judith Miller ma anche il New York Times, che si è schierato senza porsi troppe domande con la propria giornalista – mossa che costerà al giornale milioni di dollari e un’incommensurabile perdita di credibilità e fiducia da parte dei propri lettori.

La Miller e il New York Times non sono nuovi a queste strumentalizzazioni: già nel maggio del 2004 la prestigiosa testata giornalistica americana, dopo un’accurata indagine interna, ammise che le notizie sull’Iraq nel periodo che precedette la guerra non furono rigorose, soprattutto quando in diversi articoli si diede per scontata la presenza in Iraq di armi di distruzione di massa. Quegli articoli, molti firmati dalla stessa Judith Miller, giocarono un ruolo significativo nel costruire nell’opinione pubblica americana un consenso all’intervento militare. Come tutti sanno, in realtà queste armi di distruzione di massa non furono mai trovate.

Se le conseguenze degli articoli sulle armi di distruzione di massa sono evidenti, lo sono meno quelle del rifiuto da parte della Miller di collaborare con la giustizia. È stato lo stesso procuratore Patrick Fitzgerald, in una conferenza stampa ad inizio novembre, a illustrarle: «senza questo ritardo nelle indagini» – ha spiegato – «ci saremmo ritrovati qui, con questo atto di accusa, ad ottobre 2004 invece che ad ottobre 2005.» Se così fosse stato, spiega Robert Scheer, un giornalista del Los Angeles Times, oggi probabilmente Bush non sarebbe presidente degli Stati Uniti d’America. Ad ottobre 2004 ci trovavamo infatti in pieno periodo elettorale: gli indecisi con tutta probabilità si sarebbero indignati sapendo Libby, membro chiave dell’establishment, aveva agito così. E avrebbero votato per Kerry.

La storia è però andata diversamente e questo scandalo è scoppiato solo un anno dopo con conseguenze, sia per la politica che per il giornalismo americani, ancora tutte da calcolare. Intanto diversi giornalisti, tra i quali la stessa Miller, devono prepararsi a rispondere, nell’ambito del processo a carico di Libby, a domande che non riguardano solo la protezione degli informatori, ma anche la loro stessa credibilità, reputazione e tecnica professionale.

Il Corriere del Ticino, 11.11.2005, p. 37