The Economist è ancora uno dei rari giornali che riescono, non solo a sopravvivere, ma addirittura a prosperare nell’attuale crisi economica che flagella questo settore. Il settimanale ha saputo sviluppare un prodotto digitale innovativo ma continua comunque a generare profitti anche con la sua versione cartacea e può persino permettersi il lusso di mantenere corrispondenti esteri da Hong Kong, Nairobi, Mosca, Cairo, Bruxelles, Washington e Los Angeles, per citarne solo alcuni, il tutto mentre altre pubblicazioni stanno subendo delle dolorose riduzioni di organico.
Andreas Kluth, responsabile dell’ufficio di Berlino dell’Economist, ha concesso all’Ejo un’intervista nella quale spiega cosa rende speciale il magazine e come si prefigura il suo futuro. The Economist è un settimanale e come tale ha riflettuto a lungo su come affrontare il problema di uscire solo il venerdì e parlare a un pubblico che è stato bombardato di notizie per tutta la settimana. Kluth è perfettamente cosciente di questo e racconta: “non posso illudermi che i lettori aspettino una settimana per venire a sapere dal nostro giornale cosa sia successo, per esempio, in Germania. Se il loro interesse è rivolto verso questo paese, si sono sicuramente già informati e il mio compito, a quel punto, è quello di offrire loro un approfondimento che dia valore aggiunto”.
The Economist offre notizie di alta qualità e si presenta come un valido strumento per navigare attraverso il flusso costante di informazioni. Descrivendo il modo in cui siamo raggiunti dalle news, Kluth racconta: “volendo, si può rimanere attaccati a Twitter tutto il giorno, ma alla fine si rimane schiacciati dalla mole di informazioni. Per questo motivo molti lettori desiderano qualcosa che permetta loro di rilassarsi, qualcosa che serva da filtro e grazie al quale possano accedere ai contenuti veramente importarti ed essere sufficientemente informati per la giornata”.
L’app sviluppata dal giornale intende trasmettere la stessa idea di ‘finitezza’. “I nostri lettori”, continua Kluth, “possono sfogliare le pagine con un dito fino a giungere alla fine del giornale. Se vi è già capitato lo stesso su uno smartphone o un tablet conoscete la sensazione che ne deriva. I lettori ci confermano che provano la piacevole soddisfazione di aver finito con le informazioni del momento e di poter passare ad altro”. La differenza tra l’approccio dell’Economist e quello di altre riviste è chiaro, secondo Kluth: “le app di altre pubblicazioni non si arrestano mai, fornendo continui aggiornamenti. Ogni qualvolta il lettore schiaccia il tasto refresh, ecco che spunta un nuovo articolo. È un approccio differente, piace anche a me, ma così non si finisce mai”.
The Economist è orgoglioso di essere un brand globale e di investire cifre importanti per finanziare le sue sedi estere sparse in tutto il mondo. Molti media occidentali stanno eliminando i corrispondenti esteri ma Kluth è di un altro avviso. Queste le sue parole: “sono sicuro che ci siano meno corrispondenti esteri dagli Usa, ma probabilmente sono di più quelli dalla Cina e dall’India. Questi sono paesi dove la classe media è in crescita costante e vuole leggere notizie che li riguardano, per questo motivo, a loro volta, mandano inviati all’estero”.
“In passato”, ricorda Kluth, “i giornalisti erano famosi per pranzi che duravano fino a tre ore, innaffiati con numerosi Martini. Principalmente erano tutti uomini con poche straordinarie eccezioni femminili. Il tutto era molto più glamour. Un tempo c’erano più soldi a disposizione e questi permettevano a numerosi giornali di avere più corrispondenti in giro per il mondo. Ora il numero si è ridotto drasticamente ma queste figure non si possono eliminare completamente. Il New York Times manterrà sempre una ufficio di corrispondenti qui a Berlino e in altri luoghi importanti“.
In un mondo globalizzato, The Economist parte in vantaggio perché è una pubblicazione internazionale in lingua inglese. Questo comporta sia benefici che svantaggi. Il vantaggio principale, un unicum nel settore, è che il giornale non è mai stato una pubblicazione locale e si è sempre rivolto ad un’ audience davvero globale. Il settimanale è letto in tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Germania alla Cina e al Giappone, avvalendosi di un numero di lettori all’estero maggiore che in Inghilterra. Il ruolo di lingua franca che ha assunto l’inglese ha indubbiamente contribuito al successo del giornale non solo nel vecchio mondo ma ultimamente anche nei paesi emergenti. Lo stesso Kluth ne è consapevole quando ammette che “parlare inglese è un grosso aiuto. Per esempio, in India abbiano un enorme massa di lettori perché questo paese rientra nel mercato di lingua inglese. Nonostante i vari idiomi locali, le persone istruite parlano e scrivono correntemente in inglese, le lezioni e i corsi universitari sono tenuti in questa lingua. Nel breve periodo nessun giornale in lingua tedesca riuscirà a espandersi altrettanto globalmente”.
“D’altra parte”, fa notare Kluth, “questo cosmopolitismo pone anche una sfida per i reporter. I giornalisti non possono immedesimarsi intuitivamente nella mentalità e nelle aspettative di un pubblico così variegato. Riuscire a rivolgersi efficacemente a un pubblico internazionale comporta delle capacità notevoli e molto particolari. Le sensibilità dei popoli hanno caratteristiche molto diverse. Per esempio, se mi appresto a scrivere un pezzo sulla Germania, devo immaginarmi quali aspetti potrebbero interessare contemporaneamente sia il lettore in California, che quello in Giappone o in Finlandia e persino un ipotetico lettore tedesco”.
La posizione e l’importanza di alcune città possono cambiare di molto nel corso degli anni. Durante la guerra fredda, ad esempio, Mosca e Washington erano “le due sedi dove si costruiva la carriera di un giornalista“, ricorda Kluth. Negli anni ottanta era Tokyo e ora sono Pechino e Shanghai, senza tralasciare Berlino. Kluth è convinto che “in questo momento Berlino è la città più affascinante del mondo. Attualmente, ciò che succede in Gemania è molto interessante. Mai come ora il pubblico è attento a ciò che avviene qui”.
Kluth motiva questa tendenza così: “al momento, Berlino è il fulcro dell’attenzione principalmente a causa della crisi dell’Eurozona. La percezione diffusa – scelgo questa espressione perché penso che sia vera solo in parte – è che sia la Germania, in particolare con Angela Merkel in veste di cancelliere, il paese che ha il potere di aggiustare le cose. Per esempio, noi all’Economist abbiamo scelto di metterla in copertina numerose volte con titoli di tono vagamente impertinente e spiritoso come ‘hai intenzione di fare qualcosa per l’Europa, Angela?’ La Germania, il paese economicamente più importante dell’Unione Europea, è percepito come il perno della crisi dell’Euro. In Cina il pubblico non riesce a capire come funzioni l’Ue: semplicemente credono che se si vuole parlare con la persona al comando, si deve telefonare alla Merkel”.
Articolo tradotto dall’originale inglese da Alessandra Filippi
Photo credits: Rukhshona Nazhmidinova / Ejo
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