»In caduta libera«
Molto prima dell’inasprimento della crisi che ha travolto il mondo delle banche e della finanza, nell’autunno 2008, il settore della carta stampata americana era da tempo in difficoltà. Già in quel periodo, come aveva dichiarato Dean Singleton all’inizio dell’estate 2008, i conti di ben 19 delle 50 principali testate giornalistiche statunitensi erano in rosso. Singleton, amministratore delegato di Media News Group, fa capo ad un impero mediatico che controlla ben 57 quotidiani.
Inoltre, secondo l’ultimo rapporto del Project for Excellence in Journalism, il quale si preoccupa di monitorare lo stato di salute dei media, `rispetto agli anni precedenti la previsione è ancora più fosca: la carta stampata sarebbe vicina alla “caduta libera”; rimane la speranza che “si aprano ancora un paio di paracadute” ma con l’arrivo del terzo anno consecutivo di crisi “non c’è terra in vista”.
In maniera sorprendente, la loro analisi dello stato di crisi dei media si è conclusa con due scoperte significative:
■ Primo: secondo quanto afferma Michael X. Delli Carpini a proposito del New York Times, soltanto i mezzi di comunicazione a stampa si sono occupati del costante deterioramento delle condizioni del settore, sebbene negli Stati Uniti sia telegiornali che quotidiani hanno registrato lo stesso calo di pubblico. Le testate che sono state oggetto di studio hanno dedicato oltre 900 articoli alla riduzione delle tirature; mentre nei telegiornali, il tema della diminuzione dei telespettatori è stato menzionato soltanto 95 volte.
Da un confronto con il giornalismo televisivo, il divario è ancora più marcato: soltanto 38 sono stati i servizi dedicati alle sventure dei quotidiani e 6, in totale, alla caduta dei tassi di ascolto dei notiziari.
Purtroppo i ricercatori non hanno annotato il numero di articoli e servizi che tra le pagine degli stessi quotidiani e nei titoli degli stessi telegiornali sono stati pubblicati sul tema dell’influenza suina, ma con un po’ di fantasia non è difficile immaginare la portata del distacco.
■ Secondo: tra le 26 testate che sono state oggetto di studio, soltanto tre hanno approfondito il tema. Come previsto, si tratta del New York Times, del Washington Post e del Wall Street Journal, che hanno pubblicato circa la metà dei tutti gli articoli analizzati. Analogamente, sono stati solo due i canali televisivi a contendersi il primato: quelli via cavo, CNN e Fox.
Titoli diffusi
Ad oggi non siamo a conoscenza di uno studio simile che sia stato svolto nei paesi di lingua tedesca, tuttavia, con l’ausilio di pochi esempi, è possibile dimostrare che il tema del tracollo dei media è visibilmente passato in secondo piano rispetto alla crisi del mercato immobiliare e delle banche americane, che imperava già da mesi prima che in autunno, anche in Europa, tutti i giornali si concentrassero esclusivamente sul fallimento dei Lehman Brothers. “Una tigre di carta. Le testate americane sono incapaci di influire sulla campagna elettorale, poiché le loro condizioni finanziarie diventano di giorno in giorno più precarie.” Così la Süddeutsche Zeitung (7.11.2008) cercava di addolcire l’amara notizia che veniva annunciata nella seconda parte del sottotitolo; mentre la Frankfurter Allgemeine Zeitung (30.10.2008) titolava giustamente: “Previsioni nefaste per le case editrici dei quotidiani americani”, cercando comunque di ridimensionare la gravità della situazione. Questo, invece, il titolo pubblicato dalla Neue Zürcher Zeitung (29.10.2008) “Tiratura in drastico calo per i quotidiani americani”; una settimana dopo, la stessa testata annunciava: “Lo sterminio dei media occidentali” (7.11.2008); sebbene questo titolo fosse ancora molto vago indicava con maggiore precisione lo stato di avanzamento della crisi di settore. In altre parole, i giornalisti hanno trattato un tema che li interessava personalmente in un’ottica collettiva, abbandonando il loro ruoli di “segugi” della società dell’informazione e preferendo a questo degli strani incroci genetici tra struzzi e lemming.
Superficiali e provinciali
Qual è la differenza sostanziale tra gli sviluppi a cui stiamo assistendo in America e in Europa? Che cosa ci fa pensare che la crisi avrà un’evoluzione diversa nel vecchio continente rispetto agli Stati Uniti? In primo luogo è necessario riflettere sull’offerta in termini di contenuti, che nei due paesi fa registrare profonde differenze. La maggior parte dei quotidiani che vengono distribuiti nell’area di lingua tedesca non trattano temi tanto superficiali, né tanto meno si concentrano con lo stesso accanimento poco lungimirante dei colleghi americani sulla cronaca locale. La ricercatrice Miriam Meckel ha trascorso un lungo periodo di studio negli Stati Uniti che coincide con il periodo di permanenza dell’autore nello stesso paese. Ecco, in breve, quanto scrive nella sua relazione conclusiva: “Osservando il mercato americano, è facile capire perché nuove forme di pubblicazione in rete, come i weblog o l’Huffington Post, possano riscuotere tanto successo: la qualità dei media su carta stampata è talmente mediocre che nel mercato si è spalancato un vuoto in cui le novità possono proliferare liberamente.” mentre intende fare riferimento a quotidiani del Il giudizio così impietoso e distruttivo ha senz’altro la sua ragion d’essere se applicato alle testate metropolitane quali il Boston Globe, il Chicago Tribune, il San Francisco Chronicle o il San Josè Mercury News, per i quotidiani del calibro del New York Times, Washington Post e del Wall Street Journal invece è tutta un’altra storia.
Una sconfitta giornalistica collettiva
Accanto ad una carente offerta di contenuti, le notevoli differenze culturali a livello di pubblico sono un ulteriore fattore a sostegno dell’ipotesi che la crisi possa avere un decorso diverso in Europa rispetto agli Stati Uniti. Ad esempio, sembra improbabile che in Germania o in Svizzera le mode dei blogger e dei cittadini che si improvvisano giornalisti possano raggiungere la stessa popolarità che hanno ottenuto oltreoceano. In maniera analoga, la talk radio, che in America dilaga sul mercato, in Europa è stata un clamoroso insuccesso.
Pericolose acrobazie finanziarie
L’unica cosa che possiamo ancora auspicare è che i mezzi di comunicazione nel vecchio continente non cadano in pasto agli hedge fund, agli investitori di private equity e agli speculatori, com’è avvenuto e come continua ad avvenire in America.
Qui in Europa è comunque difficile immaginare che un investitore come Sam Zell, con un capitale di partenza di soli 315 milioni di Dollari, riuscisse a smuovere ben 8,2 miliardi di Dollari per acquisire un colosso mediatico come la Tribune Co. e con lui il Chicago Tribune e il Los Angeles Times, scaricando in questo modo l’onere dei debiti sui fondi pensionistici, ossia sui suoi collaboratori.
Chi avrebbe potuto immaginare un anno fa, fino a che punto le solide banche nazionali, approfittando del capitale dei contribuenti, sarebbero riuscite a manipolare le cifre pericolose del settore immobiliare e delle banche di investimenti?
»Nothing like a free lunch«
Quando avviene una rivoluzione, come quella di Internet, ad esempio, i vecchi elementi si sfaldano più velocemente di quanto quelli nuovi riescano ad emergere, tanto che neanche i rivoluzionari stessi riescono a prevedere che cosa succederà nell’immediato futuro. Questo è il pensiero dell’esperto di media, Clay Shirky. In accordo con lui, il docente di economia ad Harvard, Clayton Christensen, sostiene che le nuove tecnologie siano “destabilizzanti” e per questo non consentano di prevedere le loro tendenze di sviluppo, per consentirci di guardare al futuro con maggiore certezza.
Questo potrà accadere soltanto se i giornalisti e i dirigenti dei gruppi mediatici faranno lo sforzo di diventare osservatori più attenti, invece di continuare a nascondere la testa sotto la sabbia e buttarsi giù dalla scogliera fanno i lemming.