Neue Zürcher Zeitung, 10.03.2006
La menzogna è un elemento indispensabile nella comunicazione? Secondo lo scienziato della comunicazione Klaus Merten sì. Ma chiede che di essa venga fatto un uso più consapevole.
Che questo tabù potesse essere messo in discussione era prevedibile: quando addetti alle pubbliche relazioni, giornalisti e altri operatori dei media sono costretti alla verità come principio supremo in tutti gli ambiti etici possibili e immaginabili, non sorprende affatto che spunti uno scienziato qualunque della comunicazione e «dimostri» esattamente quanto affermato da Klaus Merten (Università di Münster), ossia che «la bugia è un elemento indispensabile nella comunicazione». Quanto sostiene Merten è un concetto condiviso perlomeno tra gli antropologi: conosciamo tutti le situazioni in cui le truffe vengono considerate trasgressioni perdonabili o persino segno di buona educazione, o in cui invece la bugia – come amabilmente dice Merten – è indispensabile in quanto «uno dei meccanismi più efficaci per mantenere il sistema».
650 esperti PR sotto esame
Poiché evidentemente non bastano solo buoni argomenti, Merten ha verificato la sua tesi in modo empirico. Ha fatto un’indagine su 650 esperti PR. All’affermazione: «Se voglio essere sempre leale nei confronti della mia azienda, vi sono talvolta delle situazioni nelle quali, per il bene dell’azienda stessa devo mentire» non vi è stato un rifiuto netto generalizzato. Da qui Marten trae la personale conclusione che «non vi è un’intesa sul fatto che bisogna mentire o meno.»
Non solo gli scienziati PR, ma anche gli economisti hanno riscoperto il tema. In un volume molto accurato Caroline Gerschlager ha riassunto come la moderna economia affronta frodi e disonestà. Questo fenomeno per molto tempo non è stato considerato un tema vero e proprio dai suoi colleghi, perché essi, ci illustra Gerschlager, «partivano dal presupposto che una concorrenza funzionante scoprisse da sé la truffa, condannandola ed eliminandola» – ipotesi molto poco realistica che strateghi militari e criminologi degnerebbero solo di un misurato sorriso, visto che per loro da molto tempo ormai le manovre di frode sono fonte di studi approfonditi.
Negli ultimi tempi gli scienziati di economia hanno ritenuto che l’informazione sui mercati sia asimmetricamente distribuita. Questo offre al partner di scambio più informato un impulso a sfruttare quello che lo è meno – una situazione ricorrente proprio nelle transazioni tra gli addetti PR e i giornalisti, benché non scambino beni contro denaro ma informazioni contro attenzione pubblica. Nel suo volume la Gerschlager ha riunito 14 colleghi per poter illustrare da molti e diversi punti di vista il contributo che potrebbero dare gli economisti al fine di capire meglio le truffe. Lei, dal canto suo, non nutre alcun dubbio «l’economista mente appena può, perlomeno finché non ci sono restrizioni che lo trattengano».
Ingenuità diffusa
Tali restrizioni sono oggetto di frequente anche se non esclusiva discussione. Tuttavia, emerge in modo molto evidente che gli stessi mercati sono impreparati a frenare le manovre fraudolente – fatto apparentemente connesso con la psiche umana. La maggior parte delle persone sono «pessime macchine della verità» e fin troppo credulone. Le persone sono semplicemente troppo sicure di riconoscere in tempo intenzioni fraudolente, scrive Rachel T. A. Carson (Wharton University) in uno dei contributi forse più interessanti del libro, non destinato ad economisti, che riassume gli esperimenti nell’ambito della teoria dei giochi al limite tra psicologia ed economia.
Ecco due brevi casi: chi, in veste di venditore, sfrutta spudoratamente le proprie conoscenze di un prodotto e quindi inganna facilmente un suo potenziale cliente, molto probabilmente sarà anche lui un cliente ingenuo. In altre parole: chi inganna viene più facilmente a sua volta ingannato, benché proprio lui dovrebbe conoscere meglio di tutti le possibilità e probabilità degli imbrogli.
E ancora: il rischio di essere ingannati dipende anche dal mezzo al quale i partner di scambio si affidano per le loro trattative. La probabilità di essere ingannati durante una comunicazione faccia a faccia si riduce molto mentre aumenta nelle trattative telefoniche – gli accordi scritti sono una via di mezzo. Questa differenza si spiega col fatto che evidentemente in un colloquio personale gli individui temono maggiormente di essere colti in flagrante mentre mentono. Trova dunque conferma la vecchia regola dei giornalisti secondo la quale le interviste delicate vanno assolutamente fatte a quattro occhi. Di conseguenza si può supporre che l’odierna tendenza comune ai giornalisti, per mancanza di tempo, di richiedere informazioni quasi esclusivamente via telefono o e-mail aumenti il rischio di essere presi in giro.
Del resto Merten non è affatto favorevole alla «liberalizzazione della menzogna», ma chiede che ne venga fatto «un uso più consapevole». Desidera inoltre un’etica della comunicazione che imponga un «inesorabile» confronto differenziato e approfondito con gli inganni. Già il suo primo esempio nel quale ci si interroga sul significato concreto non troverà un consenso unanime. Si potrebbe esigere, continua Merten, che «la bugia scritta debba essere punita in maggior misura rispetto alla menzogna verbale». Questo significherebbe che se un politico, un leader economico o anche un giornalista ci raccontano cose non vere alla radio o in televisione, è una piccolezza. Mentre molto più grave sarebbe se la stessa affermazione fosse riportata nero su bianco in un comunicato stampa o sul giornale.
«Supplemento salariale» per il lavoro ingrato
Poiché l’esperto PR deve «tutelare il proprio capo, l’azienda e le proprie idee», potrebbe o dovrebbe, secondo Merten, «già solo per questo motivo, non dire la verità in caso di dubbio», oppure «mentire… ma mentire bene». «L’immagine poco lusinghiera dei PR» è dunque condizionata. Gli addetti alle pubbliche relazioni devono «per così dire svolgere un lavoro sporco, per il quale si meritano un discreto supplemento sulla busta paga mensile». Non solo gli addetti alla raccolta dei rifiuti troveranno quest’affermazione alquanto cinica.
Tentare perlomeno di ostacolare la menzogna professionale è per contro uno degli obiettivi delle analisi economiche. Gerschlager ed i suoi colleghi vogliono scoprire quali stimoli istituzionali favoriscano gli imbrogli per poter intervenire laddove le manovre fraudolente danneggiano sia i singoli, sia la società. È la società energetica Enron l’esempio pratico del quale si avvale Gerschlager per analizzare quanto detto finora, in modo esemplare.