Nella seconda metà di febbraio si è assistito ad un numero davvero consistente di dichiarazioni sulla volontà di erigere dei paywall da parte di diverse organizzazioni ed organi di informazione.
Muretti di protezione dei contenuti giornalistici di diversa consistenza e natura che coinvolgono un gruppo davvero nutrito di quotidiani.
Il gruppo Gannett, durante la relazione annuale agli investori, ha annunciato di voler presto adottare un modello a pagamento simile a quello del The New York Times per tutti gli 80 giornali del gruppo ad esclusione di USA Today con l’obiettivo di incrementare di un quarto i ricavi da abbonamenti del gruppo raggiungendo i 100 milioni di dollari di ricavi con questa voce. Ha fatto seguito The Wall Street Journal che ha deciso di restringere ulteriormente le maglie della rete di protezione non consentendo, se non ai più smaliziati, la visione degli articoli da motori di ricerca come avveniva precedentemente e Times e Sunday Times che a poco più di un anno dall’introduzione del paywall hanno raddoppiato le tariffe di accesso all’edizione online.
Se il successo relativo del quotidiano newyorkino, per i risultati oltre le più rosee aspettative ottenuti dagli abbonamenti alla versione digitale dopo l’introduzione neppure 12 mesi fa del “soft paywall”, può essere stato di sprone ad una decisione che sembra più dettata dall’impellenza di ricavi che da una strategia precisa sono proprio i quotidiani del Gruppo che fa capo a Murdoch che invitano ad un riflessione più ampia sull’opportunità o meno di questo tipo di prese di decisione. Infatti è proprio il Times londinese crollato da quasi 10 milioni di utenti unici mensili agli attuali 120mila abbonamenti dopo il passaggio all’accesso esclusivamente a pagamento per l’edizione online, ad invitare alla riflessione, poiché, pur pareggiando in valori assoluti la discesa dell’edizione cartacea, non compensa se non in minima parte il calo corrispondente dei ricavi.
Nella valutazione dei meccanismi, delle modalità e delle probabilità di successo di far pagare l’utenza per i contenuti online è interessante ed opportuno esaminare la case history del Financial Times, oltre che per l’assonanza dei nomi per le differenze rispetto ai due grandi quotidiani (quasi) omonimi.
Il quotidiano economico finanziario londinese rappresenta infatti, insieme all’ altra pubblicazione inglese, l’Economist, uno dei rarissimi casi di successo in ambito editoriale nel conseguimento di valorizzare i contenuti online.
Primo tra tutti i giornali internazionali a passare anche nell’edizione digitale esclusivamente a pagamento, già nel 2010, pur partendo da una circolazione e da accessi online decisamente più contenuti rispetto ai due quotidiani generalisti precitati, ha totalizzato oltre 267mila abbonamenti con una crescita del 30% rispetto all’anno precedente.
La chiave del successo sembra risiedere essenzialmente in due fattori: forte specializzazione e valore dei contenuti combinata con una grandissima attenzione, in termini di monitoraggio, delle informazioni ottenute grazie al tracking dell’utenza online, ai quali, con specifico riferimento ai dati finanziari, va aggiunta l’importanza dell’informazione in tempo reale, e dunque necessariamente digitale/online, che rappresenta sicuramente un valore aggiunto maggiore in quest’area.
E’ probabilmente impossibile, e forse sbagliato concettualmente e metodologicamente, trarre una lezione generale applicabile a contesti diversi sulla possibilità di valorizzare i contenuti online. Se una va proposta risiede certamente nella definizione della customer value proposition e dunque, anche, per la realizzazione di progetti di successo in ambito editoriale.
Su questo fronte la strada della specializzazione, a parità di condizione, potrebbe essere una scelta vincente nell’attuale scenario competitivo caratterizzato da frammentazione di interessi e sovrabbondanza di informazione. In caso contrario si finirebbe inevitabilmente per avvantaggiare i newcomers.
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