Il paradosso dei free rider

12 Febbraio 2021 • Digitale, Più recenti • by

Questa è una puntata di “Ellissi”, la newsletter settimanale di Valerio Bassan, dedicata al futuro dei media e alle nuove economie del digitale. È possibile iscriversi qui.

Nel 2001 il prodotto tecnologico di punta del New York Times non era un’app, né un algoritmo, né un long-form interattivo. Era un cestino della spazzatura. Il peculiare oggetto – voluto da Frank J. Tinelli, “direttore della sicurezza e della distribuzione” del quotidiano – aveva uno scopo ben preciso: evitare che le copie del Times gettate dai pendolari in arrivo a Grand Central, una delle stazioni ferroviarie più trafficate di New York, divenissero preda di altri viaggiatori in cerca di un po’ di informazione gratuita.

Questa, a Grand Central, era un’usanza piuttosto diffusa — ogni mattina centinaia di passeggeri della Metro-North Line, la rete ferroviaria che collega la grande mela al New Jersey e allo stato di New York, si soffermavano alla fine del binario in cerca di una copia usata del Times abbandonata dai pendolari più mattinieri.

Tinelli disegnò personalmente i nuovi cestini e convinse l’azienda a produrne e installare 80 esemplari, investendo circa 60mila dollari. Il nuovo cestino era dotato di una fessura grande esattamente quanto un giornale e di una stretta maglia metallica laterale che impediva a chiunque di allungare una mano per accaparrarsi gratis una copia del quotidiano — magari un po’ spiegazzata e con qualche macchia di filter coffee, ma ancora perfettamente leggibile.

Quella che per me era un’intelligente forma di riciclo, per Tinelli rappresentava una temibile minaccia, tanto da spingerlo a progettare una propria forma di architettura ostile pur di salvaguardare qualche centinaio di copie vendute ogni giorno. La vicenda dei cestini “anti-scroccone” dice molto della mentalità che aleggiava all’epoca nell’industria dei giornali. La necessità di preservare un impero che stava entrando nella sua fase calante, minacciato dall’ombra crescente del digitale.

Di lì a poco le muraglie dei fortini di carta avrebbero iniziato a sbriciolarsi, e nel tempo a venire sarebbe cambiato tutto: canali di distribuzione, formati editoriali, strategie di monetizzazione, processi redazionali, rapporto con i lettori. Per un altro decennio nessuno sarebbe riuscito a trovare una bussola per navigare queste acque agitate.

Nemmeno il New York Times. La storia che ti ho raccontato mi fa anche una certa tenerezza. Come poteva pensare, il Times, che la campagna “anti-scrocconi” avrebbe avuto un impatto tangibile sulle vendite del giornale? Progettava forse di installare i propri cestini in ogni stazione dei treni, fermata autobus e aeroporto degli Stati Uniti? E anche se fosse, sarebbe cambiato qualcosa?

Questa vicenda, oltre a essere piuttosto ironica, è anche profondamente anacronistica: è ambientata nel 2001, non negli anni ’70. Il digitale stava già cambiando le regole del gioco, rendendo più liquido il fluire dell’informazione e pressoché impossibile fermarne la diffusione gratuita. Gli economisti definiscono una simile situazione come il problema del free-rider. Il free rider (traducibile come “lo scroccone”, quello che non paga il biglietto) è “l’individuo che beneficia di risorse, beni, servizi, informazioni, senza contribuire al pagamento degli stessi, di cui si fa carico il resto della collettività”.

È un free rider l’evasore fiscale; il viaggiatore che non paga il biglietto dell’autobus; l’anti-vaccinista che, fermo nelle proprie convinzioni, beneficia comunque dell’immunità di gregge. Ma è tale anche, in un’accezione meno rigida, l’utente di Wikipedia che non dona né contribuisce; o chi, pur ostinandosi a guidare una vecchia macchina diesel, respira aria più pulita perché tutti i suoi concittadini hanno scelto di muoversi in bicicletta. Ogni bene pubblico, e tra questi c’è il giornalismo, ha sempre avuto la sua percentuale di free rider.

Domanda: il free rider “viaggia” davvero gratis?
Inizialmente, con la rara eccezione del Wall Street Journal che è dotato di un paywall dal 1996, quasi tutti i siti dei giornali erano gratuiti. Il loro ruolo era quello di fungere da traino alla carta, che godeva di un modello di business ancora efficace, nella speranza che un giorno la pubblicità digitale portasse una quantità di introiti sufficiente per pagare il costo di produzione dei contenuti. Quel giorno, come sai, non è mai arrivato.

In tempi più recenti, i media hanno sempre lottato per creare architetture ostili in grado di arginare i free rider digitali; implementando formati pubblicitari più subdoli o invasivi, per esempio, o dotandosi di paywall. Azzerare la quota di free rider è pressoché impossibile: anche il più hard dei paywall è infatti bucabile, così come è inevitabile un certo tasso di password sharing.

Tuttavia, siccome nel mondo there ain’t no such thing as a free lunch, anche i veri free rider nei media sono pochi. La maggior parte degli “scrocconi” sta infatti pagando con una moneta diversa, come la propria attenzione. Ma non solo. Duolingo, ad esempio, guadagna grazie al lavoro collettivo effettuato in crowdsourcing dai suoi iscritti, che mentre si sottopongono ad esercizi per apprendere una nuova lingua, in realtà stanno traducendo (gratis) migliaia di pagine web, o allenano modelli di machine learning aiutandoli a identificare correttamente i contenuti delle immagini.

Uno scambio che non è sempre chiaro a chi fruisce del prodotto, ma che nel tempo ha dimostrato di poter funzionare. Anche chi afferra una copia usata del New York Times dal fondo di un cestino ripaga, più o meno consapevolmente, la testata. In primis perché si espone alla pubblicità, contribuendo, se non alle vendite del singolo inserzionista, quantomeno all’awareness globale del suo marchio. E poi lo fa attraverso un’altra moneta fondamentale: il passaparola.

Dire “L’ho letto sul New York Times” alla macchinetta del caffè, discutendo coi colleghi, genera un indubbio valore indiretto per la testata. Poco conta, in questo caso, che il ‘diffusore’ abbia comprato o meno la copia di quel giorno.

Devo temere il mio free rider, quindi?
In economia, il free rider è sempre considerato un problema, un esempio di mercato inefficiente — poiché presuppone che alcuni individui siano liberi di accedere a più beni e servizi rispetto a quanto gli spetterebbe realmente. Nei media, però, il discorso cambia: in questa fetta della tua audience si nasconde un grande valore. Che, probabilmente, non stai sfruttando.

Pur non contribuendo direttamente al sostegno del tuo prodotto, il free rider è spesso un tuo seguace accanito, che apprezza il tuo brand, lo fruisce con sorprendente regolarità, e sta scegliendo te rispetto a un competitor. Non è poco. A modo loro, molti free rider sono una versione light dei superutenti. Pensaci: quanto impegno e “superutilizzo” c’è nel raccogliere una copia del New York Times da un cestino in stazione?

È questo il paradosso del free rider: pur essendo un utente attivo e un cliente potenziale, è visto come una minaccia da debellare. Sebbene si trovi ancora nella parte iniziale del tuo funnel, infatti, il free rider ha già cominciato un percorso di conversione.

Per far sì che il processo si compia, dovrai fare due cose:

  • Capirlo meglio. Spesso il free rider si accontenta di una versione ridotta del tuo prodotto: il tuo compito è capire perché. Quali sono i suoi bisogni? Che cosa manca per farlo diventare un membro della community? Che cosa lo frena dall’acquistare o dall’abbonarsi?
  • Offrirgli di più. Sì, hai capito bene. Un ruolo potente dei free rider nel giornalismo è quello di aumentare la discoverability del tuo contenuto. Devi fornirgli modi adatti per continuare a “scroccare”, magari in cambio dei suoi dati, e strumenti efficaci per condividere il prodotto con altri potenziali free rider.

Alcune testate hanno fatto dell’accessibilità e della porosità verso i free rider il proprio valore fondativo: penso al Guardian, che chiede a una parte dei lettori di sostenere il suo giornalismo affinché possa restare gratuito per tutti — anche per quelli che non possono o non vogliono pagare. C’è sempre tempo per costruire contenitori più impenetrabili, o progettare architetture più ostili. Io preferisco investire le mie risorse nel disegnare strategie più efficaci e inclusive.

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