Ripensare il data journalism

21 Giugno 2019 • Etica e Qualità, In evidenza • by

http://facta.tilda.ws/

“La scienza non è solo una miniera di storie e dati di cui ci piace parlare e leggere, ma è anche un modo di pensare che può aiutare i giornalisti a migliorare il proprio rapporto con la ricerca dei fatti, a valutarli, e confermarli o rigettarli”. Questo è il cuore di quanto scrivevo in un post recentemente pubblicato su Medium, nel quale parlo delle ragioni che mi hanno portato a costruire Facta, un centro no-profit con un focus sul Mediterraneo che applica il metodo scientifico al giornalismo. Facta è stato al centro del lavoro che ho svolto negli ultimi mesi come Tow-Knight fellow in giornalismo imprenditoriale presso la Craig Newmark Graduate School of Journalism alla CUNY, la City University di New York. Mi sono sforzata, in questo periodo, di articolare nel modo più preciso possibile le ragioni della mia insoddisfazione rispetto allo stato dell’arte del giornalismo contemporaneo.

Ci sono molti motivi diversi per cui il giornalismo è sotto accusa negli ultimi anni. Non mi va di snocciolare tutte le solite parole ed espressioni chiave ormai diventate un ritornello quasi inascoltabile e molto di comodo quando parliamo della crisi dell’informazione. È chiaro che ci sono seri problemi sia nelle pratiche di verifica dei fatti da parte dei giornalisti, spesso non attrezzati per affrontare la velocità con cui le informazioni circolano, ma soprattutto il livello di manipolazione iniettato nel ciclo informativo da parte di diversi attori con finalità e risultati anche molto diversi. Ci sono anche molti problemi nella capacità di mettere le notizie in un contesto articolato e più complesso. E ci sono problemi di relazione con la propria comunità di lettori, che in molti casi sono anche diretti sostenitori del lavoro fatto dai giornalisti. Negli Stati Uniti, per esempio, ci sono state di recente due vicende che hanno tenuto alta l’attenzione di chi si occupa di media: la vicenda della campagna di raccolta fondi fatta dal magazine olandese The Correspondent e la questione del licenziamento della ideatrice e fondatrice del nuovo sito di giornalismo d’inchiesta The MarkUp da parte dei suoi co-fondatori. Entrambi rappresentano esempi di progetti molto interessanti e innovativi di giornalismo di alta qualità che si trovano ad affrontare, per motivi completamente diversi, una crisi di credibilità e fiducia che potrebbe avere impatti negativi anche su altre esperienze simili in futuro.

Vorrei essere molto chiara: io amo il giornalismo. E ho un profondo, profondo rispetto per tutti quei giornalisti che lavorano duro per portare fatti e storie significative all’attenzione dei loro lettori, continuano a lavorare anche quando ricevono minacce, quando vengono maltrattati o attaccati da chi detiene il potere, quando diventano oggetto di campagne di odio e rischiano o addirittura perdono la libertà o la vita. Su questi temi, tra l’altro, ha recentemente scritto Jay Rosen sul suo blog PressThink; Roberto Saviano ha lanciato un appello dalle pagine del Guardian; il World Press Freedom ha pubblicato una serie di nuovi dati e la Columbia Journalism Review ha pubblicato un commento. Pertanto, non mi va di essere cinica in alcun modo. Sono fermamente convinta che la libertà di stampa sia un valore fondamentale e che il giornalismo debba essere protetto. Ma è proprio perché amo il giornalismo che sono delusa da molte delle sue pratiche e routine. Per quanto riguarda Facta, la mia delusione sorge da ragioni molto specifiche, che riguardano principalmente il modo in cui il giornalismo ha trattato, e sta trattando, dati e informazioni significative e utili.

Ho fatto la ricercatrice per molti anni prima di passare al giornalismo. Quando ho conosciuto il data journalism quasi 10 anni fa, pensavo di aver trovato la combinazione perfetta per me. Immaginavo di poter mettere insieme il mio approccio e pensiero scientifico con le mie capacità giornalistiche per produrre un tipo di informazione che fosse, soprattutto, utile. Ma a distanza di alcuni anni, vedo che spesso i dati finiscono per essere usati in modo decorativo – una bella mappa o una infografica per riempire una pagina, senza contesto e dando alle persone pochi mezzi per approfondire gli argomenti. A complicare le cose, i media sono spesso la fonte di un alto grado di confusione tra fatti, ipotesi, teorie e opinioni, denotando una scarsa conoscenza del modo in cui i fatti e le informazioni possono e devono essere convalidati. Faccio davvero fatica a capire il basso livello di coinvolgimento, passione e interesse nell’affrontare argomenti complessi, analizzarli con una metodologia solida e offrirli poi ai lettori, ascoltatori e spettatori in un modo che consenta loro di utilizzare quell’informazione – di comprendere problemi complicati e pensare a potenziali soluzioni. Probabilmente sono ingenua, ma questo è esattamente quello che mi aspetto dal giornalismo: la capacità di offrire una informazione di alta qualità al servizio della democrazia; di connettere, collegare e contestualizzare. Così mi sono messa a cercare studi e ricerche sulla qualità del data journalism. Sono partita da una ipotesi precisa, basata sulla mia esperienza ma anche su una mia percezione: con qualche eccezione, e ce ne sono di importanti, il data journalism generalmente non ha mantenuto la promessa originale di aiutare a leggere la realtà in un modo più approfondito e corretto. Sono ben felice di prendere in considerazione punti di vista ben diversi dal mio, se supportati da evidenze. Nel frattempo, ecco qui quello che ho trovato.

Alla fine di marzo, il quotidiano britannico Guardian ha pubblicato un pezzo rievocativo della storia del data journalism fatto dalle sue pagine, con una intervista a più voci a Caelainn Barr, Mona Chalabi e Nick Evershed, rispettivamente data editor del Guardian U.K., U.S. e Australia. (Parzialmente off topic: ho incontrato Caelainn Barr in più occasioni tra il Festival del Giornalismo di Perugia e le lezioni al Center for Investigative Reporting di Londra. Ha un track record davvero notevole ed è una delle migliori data journalist in circolazione oggi). Il Guardian ha scelto di discutere dello stato del data journalism esattamente a dieci anni dalla pubblicazione del suo Datablog, aperto nel Marzo 2009 da Simon Rogers, senza dubbio uno dei pionieri del genere, oggi data editor nel News Lab team di Google e direttore del Data Journalism Award. In questo articolo-retrospettiva, gli editor del Guardian dicono un po’ di cose che chiariscono bene come il data journalism si fa oggi e cosa è cambiato rispetto alle sue origini.

Il Datablog ha aperto la via a una serie di progetti basati sui dati ma il lavoro che facciamo oggi è molto diverso” esordisce Barr. “Negli ultimi dieci anni il nostro approccio è evoluto e ora ampliamo le storie che troviamo nei dati collaborando con altri reporter per mettere voci ed esperienze umane al centro delle nostre storie”. All’inizio il giornalismo dei dati consisteva di un processo per approssimazione ed errore, dove alla competenza si aggiungeva anche molta creatività e sperimentazione, dato che si trattava di un territorio davvero vergine. Evershed ammette che il Guardian è “la pubblicazione che davvero mi ha portato a interessarmi al data journalism, perché aveva un vero e proprio approccio hacker-punk-DIY nei primi tempi. Questo mi ha fatto pensare che fosse il tipo di cosa che potevo fare anche se non avevo una formazione vera e propria in programmazione o in visualizzazione dei dati al di là del poco che avevo imparato studiando scienze”.

A rafforzare l’idea di quanto l’approccio fosse effettivamente punk-DIY, c’è questo popolare post scritto da Simon Rogers nel 2012 —  “Anyone can do it. Data journalism is the new punk”. Si tratta quasi di un manifesto, e io lo uso ancora spesso per introdurre i miei studenti al data journalism. Ma una fondamentale differenza a confronto con quei primi anni è proprio che “nei primi tempi c’era molta più enfasi sul rendere i dati disponibili”, come dice Chalabi. “Producevamo sempre un Google spreadsheet con i numeri che avevamo utilizzato per scrivere l’articolo”. Questo adesso non succede più, con poche eccezioni. E non mi piace proprio, visto che io per prima ho utilizzato quegli stessi dati, resi disponibili da loro e da tanti altri colleghi, e rimango convinta che avere i dati a disposizione sia quello che rende il data journalism utile al di là dello storytelling.

Rendere i dati disponibili era in effetti una delle specifiche caratteristiche del data journalism quando ha preso il via nel 2009, come racconta lo stesso Simon Rogers a Letizia Gambini in questa intervista. (Tra l’altro, l’EJC ha appena lanciato un nuovo sito interamente dedicato al data journalism, con moltissime risorse utili per i giornalisti.) “E se pubblicassimo i dati in un formato aperto? No PDFs, solo dati interessanti e accessibili, pronti all’uso per tutti. E questo è quello che abbiamo fatto con il Datablog del Guardian … Abbiamo cominciato a renderci conto che i dati potevano essere applicati a qualsiasi cosa”. Nelle sue parole, Rogers trasmette l’eccitazione per quello che è stato senz’altro un passo pionieristico, quando i progetti data-driven segnavano il marchio di un giornalismo diverso e davano il via a un nuovo genere di collaborazioni tra giornalisti e sviluppatori, hackers e designers per migliorare sia gli strumenti che le pratiche che coinvolgevano l’uso dei dati. Anche il movimento Hacks&Hackers, ad esempio, è nato in quegli anni. Rogers riserva anche uno sguardo al futuro. “Fronteggiamo oggi un tema sempre più allarmante e consistente: la fiducia. L’analisi dei dati è sempre e comunque soggetta a interpretazione e potenziali disaccordi, ma un giornalismo data-driven fatto bene può superare questo problema. In un momento storico in cui la fiducia nelle notizie e nei fatti condivisi è messa in dubbio ogni giorno, il data journalism può essere un faro per noi, per portare fatti ed evidenze alla luce in un modo accessibile”. E io sono del tutto d’accordo con il fatto che un data journalism fatto bene possa superare la sfiducia, o almeno aiutare ad andare in quella direzione.

Ma il data journalism fatto bene è una pratica diffusa? Vediamo cosa ne dice Alberto Cairo, uno dei più attivi e rispettati esperti di visualizzazione dei dati nonché instancabile ed entusiasta formatore di questo settore. Qualche anno fa, nel 2014, Cairo ha scritto un contributo per il Nieman Journalism Lab intitolato “Data journalism needs to up its own standards.” (Il data journalism deve alzare i suoi standard). In questo post, Cairo parla del recente entusiasmo attorno al giornalismo data driven e explanatory, e cioè il giornalismo che fornisce contesto e spiegazioni. “Parlo di siti come quello di Nate Silver FiveThirtyEight e quello di Ezra Klein Vox.com, scrive, e anche di nuove proposte fatte da media tradizionali, come ad esempio The Upshot del New York Times. “C’è davvero da complimentarsi per quello che tutte queste iniziative — e ad altre simili che arriveranno in futuro — tentano di realizzare”, ammette Cairo, aggiungendo però subito dopo, “ma devo confessare la mia delusione rispetto a questa nuova ondata di data journalism — perlomeno per ora”. E fa una serie di esempi che chiariscono cosa intenda dire: pratiche di cosiddetto cherry-picking (scelta accurata e intenzionale di dati a sostegno di quello che si vuole dimostrare) e correlazioni superficiali tra diversi studi a supporto delle proprie idee; casi di uso poco corretto dei dati senza una analisi adeguata; la tendenza a fare previsioni lineari a lungo termine da fenomeni che lineari non sono; e altri generi di errori.

Cairo conclude che queste nuove pubblicazioni “avevano promesso un giornalismo basato su un’analisi rigorosa di fatti e dati, ma hanno invece offerto storie e interpretazioni basate su evidenze poco solide  — con il conseguente rifiuto da parte dei lettori”. Cairo procede poi dando una serie di consigli, come ad esempio quello di non lavorare isolati o di fretta, di collaborare più e meglio con scienziati e ricercatori, che possono mettere i dati in un contesto corretto e spiegarli bene. Che poi è quello che fanno i media rigorosi e molto seri quando lavorano con i dati, come mostrano alcune delle inchieste più belle di ProPublica. (Una delle mie preferite è Losing grounds, che è il risultato di un uso molto attento di dati scientifici con un grande supporto da parte di scienziati ed esperti.) La conclusione di Cairo è molto chiara: “c’è bisogno di un giornalismo più rigoroso e scientifico”. Mentre concordo con ogni parola scritta da Alberto Cairo in questo post, non posso sapere se il suo disappunto sia tale ancora oggi. Il mio lo è. E una pubblicazione molto più recente mi aiuta a spiegare perché.

A gennaio, Rodrigo Zamith, un ricercatore esperto di studi sui media in forze alla University of Massachusetts Amherst ha pubblicato un articolo di ricerca sulla rivista scientifica Digital Journalism intitolato Transparency, Interactivity, Diversity, and Information Provenance in Everyday Data Journalism. Zamith ha analizzato un corpus di 150 articoli di data journalism prodotti dal New York Times e dal Washington Post nella prima metà del 2017. Il suo è uno dei pochi studi fatti in anni recenti che non si limita a interviste agli esperti del campo ma analizza direttamente gli articoli. Sostanzialmente, Zamith valuta in modo quantitativo “le caratteristiche degli articoli in base ai concetti di trasparenza, interattività, diversità e provenienza delle informazioni”. Questi tre elementi, dice quando si riferisce agli studi precedenti, “sono associati alla fiducia nei media, sono considerati componenti essenziali nella risposta al declino della fiducia verso istituzioni come il giornalismo nelle democrazie liberali”. I risultati di Zamith dimostrano che oltre l’87% degli articoli analizzati non ha alcun link ai dati utilizzati e, mentre il Washington Post fornisce un link all’intero set di dati in meno dell’8% delle storie, il New York Times linka solo parzialmente ai dati utilizzati nel 6% dei casi e mai all’intero dataset.

Per quanto riguarda l’interattività, vista secondo diversi studi come “elemento chiave nell’abilitare trasparenza e partecipazione e caratteristica distintiva dei media online rispetto alle loro controparti analogiche”, ancora una volta i risultati dell’analisi di Zamith indicano che oltre l’80% delle storie pubblicate da entrambi i giornali non offrono alcuna forma di interattività. Infine, riguardo i dati utilizzati, il problema principale è che “gli studi precedenti hanno dimostrato che i giornalisti si affidano regolarmente a dati accessibili pubblicamente da fonti istituzionali, e in particolare da fonti governative”, mentre l’uso di dati raccolti da loro stessi e da fonti originali è raro. I risultati di Zamith confermano questa scarsa diversificazione delle fonti. Eppure, lasciatemi aggiungere, scienziati e accademici pubblicano molti dati riutilizzabili cui è possibile accedere anche abbastanza facilmente. Ma questi raramente passano attraverso i media.

Ora, dove ci porta tutto questo? A molte domande chiave, come quelle poste da Jonathan Gray e Liliana Bounegru nella seconda edizione del Data Journalism Handbook, che sarà pubblicata quest’anno. Nell’introduzione, Gray e Bounegru riflettono su cosa è cambiato nella pratica del giornalismo dei dati. Esaminano il modo in cui i giornalisti sono passati dagli entusiastici esperimenti iniziali alle grandi inchieste basate sui massicci leaks negli anni successivi fino ai recenti fallimenti nella previsione dei risultati della Brexit e delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti del 2016. Questi enormi cambiamenti portano Gray e Bounegru a dire: “i dati non forniscono solo rappresentazioni neutrali e dirette del mondo, ma sono in realtà intrecciati con la politica, la cultura, il denaro e il potere. Le istituzioni e le infrastrutture che sono dietro la produzione di dati – dalle indagini alle statistiche, dalle scienze del clima alle piattaforme di social media – sono state messe in discussione. Ci si potrebbe chiedere: quali dati, i dati di chi e con quali mezzi?”. Gli autori formulano anche altre domande anticipando però che l’Handbook non vuole dare delle risposte. Al contrario, “invece di dare per scontata la pertinenza e l’importanza del data journalism, trattiamo queste come domande aperte che possono essere affrontate in molti modi”. E naturalmente noi siamo molto curiosi di vedere come i vari autori che contribuiranno all’Handbook discuteranno e forniranno chiavi di lettura e idee diverse.

Rimango convinta del fatto che il giornalismo dei dati possa e debba fare meglio. Per me – ma forse sono troppo idealista – il punto fondamentale è che i dati possono essere enormemente utili se e quando vengono utilizzati per soddisfare i bisogni delle comunità. Il che non è così lontano da ciò che fa la scienza: sviluppare le conoscenze per migliorare la condizione umana. Il giornalismo, essendo una pietra miliare della democrazia, dovrebbe seguire lo stesso principio. E i dati possono giocare un ruolo cruciale. Ma dobbiamo trattarlo con rispetto, rigore e competenza. Il giornalismo non dovrebbe essere solo decorativo; al contrario, è una delle attività essenziali che ci permettono di capire il mondo.

Articolo pubblicato originariamente su Medium in inglese

 

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