Quando nel 2004 Philip Meyer pubblicò The Vanishing Newspaper, la sua profezia, per quanto documentata dall’analisi dei dati, fu accolta con scetticismo. Lo studioso americano aveva collocato l’ultima copia del New York Times, e con essa la morte della stampa (intesa come supporto all’informazione), nel 2043.
Otto anni dopo, lo scetticismo ha lasciato posto alla preoccupazione. Il New York Times, nonostante le ferite inferte da calo della diffusione e della pubblicità, è sempre al suo posto deciso a smentire Meyer e la sua profezia. Proprio ieri sono usciti gli ultimi dati sull’andamento della testata relativi al terzo trimestre del 2012.
Ciò non toglie che negli ultimi cinque anni la crisi della editoria abbia già mietuto vittime illustri. L’ultima è Newsweek. Tina Brown – che ne ha assunto la direzione due anni fa, dopo che il novantenne Sidney Harman aveva rilevato la testata dal Washington Post per la simbolica cifra di un dollaro – ha annunciato (http://www.thedailybeast.com/articles/2012/10/18/a-turn-of-the-page-for-newsweek.html) che l’ultima copia di Newsweek uscirà il 31 dicembre di quest’anno. Dal 2013 il settimanale vivrà solo nella forma digitale a pagamento, sotto la testata “Newsweek Global”.
Il calo della circolazione, che da 4 milioni di copie nel 2003 è passata a un milione e mezzo nel 2010, e la crisi della pubblicità non garantivano più costi di stampa e distribuzione.
Fosse solo questo il problema, poco male. Il fatto è che i ricavi non sostengono più neanche gli uffici di corrispondenza, gli inviati e le firme che per 80 anni hanno reso prestigiosa la testata liberal americana: dalle campagne per i Kennedy, alle critiche contro la guerra in Vietnam; dalle battaglie contro il razzismo alla denuncia del sexgate che coinvolse il presidente Clinton.
Il depauperamento delle professionalità, dovuto alle ristrutturazioni e ai tagli degli ultimi anni, ha progressivamente avvicinato il giornale al web, privandolo di quel valore aggiunto, fatto di analisi e commenti originali, che rappresentava la principale motivazione di acquisto per quei lettori che volevano capire e farsi un’idea.
Adesso la scommessa, tutta da verificare: una testata impoverita nella qualità e nella originalità, sempre più simile all’informazione che viaggia gratis sul web, sarà in grado di attirare abbonati?
L’impressione è che i ricavi digitali siano ancora insufficienti a sostenere le vecchie strutture in cui si formava il giornalismo di qualità. Vedremo presto se l’ultima copertina di Newsweek si porterà via anche tutto il resto.
Paradosso Guardian
Contemporaneamente alla notizia dell’abbandono dell’edicola da parte di Newsweek, il Telegraph di Londra ha scritto che il Guardian sarebbe pronto a dismettere la stampa del quotidiano per puntare tutto sul digitale.
La notizia è stata prontamente smentita (http://www.poynter.org/latest-news/mediawire/191909/guardian-no-truth-to-report-it-may-end-print-edition/#) dal direttore Alan Rusbridger e dal Guardian News & Media, gruppo che controlla il prestigioso giornale inglese: entrambi hanno ricordato che dal quotidiano arriva ancora il 70% dei ricavi e che senza nuove fonti di reddito alternative sarebbe impossibile sostenere il giornalismo di qualità.
Dunque è lo stesso Guardian, che forse più di ogni altro ha puntato sullo sviluppo digitale, a confermare la tesi che carta e web non possono ancora prescindere l’una dall’altra: allo stato la sola presenza online non è in grado di garantire il giornalismo generalista di qualità, almeno che non si operi in settori circoscritti e verticali, o con modelli completamente diversi dalle redazioni tradizionali.
Se questo vale per il Guardian, a maggior ragione vale per gli altri. In occasione della seconda guerra del golfo, nel 2003, il giornale britannico ha lanciato una strategia digitale che ha creato sul sito un’audience 15 volte superiore a quella della carta. Il suo direttore, Alan Rusbridger, è un convinto sostenitore dell’informazione free sul web, nonostante il sito non sia ancora riuscito a risolvere la questione cruciale di come monetizzare un pubblico di oltre 30 milioni di utenti: “Adesso tutti parlano di business model – ha dichiarato (http://www.editorsweblog.org/2012/09/10/rusbridger-on-the-guardians-open-journalism) – ma per gli editori sarebbe meglio concentrarsi su quale sia la più convincente forma di giornalismo, perché questa è la strada per il business model”.
Difficile prevedere se la strategia del Guardian prevarrà in futuro trovando una propria sostenibilità. Ma è certo che il giornale è oggi una delle testate di qualità più lette e apprezzate nel mondo. Un risultato che all’inizio di questo percorso, 10 anni fa, era tutt’altro che scontato.
Contagio paywall
Dall’altra parte della barricata cresce l’esercito “anti-Guardian”, cioè degli editori che, capitanati da Rupert Murdoch, sostengono che il giornalismo costa e non può essere gratis. Alfiere di questa scacchiera è il Wall Street Journal, a pagamento dal 1996, che vanta più di 500.000 abbonati all’edizione digitale. Il New York Times, che ha adottato il paywall nel marzo 2011, ha raggiunto 380.000 abbonati. Il paywall funziona anche per il britannico Financial Times, con oltre 600.000 abbonati, e per il gruppo tedesco Axel Springer, editore di Bild, Handelsblatt e Die Welt, che ha portato il peso dei ricavi digitali al 33,9% e punta a raggiungere il 50% entro il 2015.
Grandi manovre in Italia
Anche in Italia si cominciano a prendere in considerazione le strategie già sperimentate altrove. Secondo quanto scrive Lettera43.it (http://www.lettera43.it/tecnologia/web/news-online-a-pagamento_4367569419.htm), Corriere della Sera e Repubblica sarebbero pronti a un accordo per introdurre il paywall da gennaio 2013. Sistemi di pagamento sono all’ordine del giorno anche al Sole 24 Ore: la testata più avvantaggiata, per tipo di contenuti trattati, a incontrare il favore dei lettori.
Per tutti il modello prevalente è quello misto, che prevede la consultazione di un certo numero di articoli gratuiti (20 circa) e l’abbonamento solo per i lettori più motivati.
Quali saranno le conseguenze dell’adozione di questi sistemi sul mercato italiano? Considerando che gli abbonamenti che vanno per la maggiore prevedono la consultazione su tutte le piattaforme di tutti i contenuti, on e offline, si potrebbe verificare una spartizione del mercato, un po’ come avviene con l’edicola, con una nuova stagione di concorrenza.
I navigatori, soprattutto giovani, sono abituati a saltare da un sito all’altro alla ricerca dei contenuti più interessanti. Oggi la sovrapposizione dei lettori online di Repubblica e Corriere è altissima. Ma di fronte all’eventualità di pagare, pochi lettori sarebbero probabilmente disposti a sottoscrivere entrambi gli abbonamenti. A meno che gli editori non decidano di affidare le proprie testate a edicole digitali “all-you-can-read” (http://mediablog.vanityfair.it/2012/07/12/ledicola-digitale-all-you-can-read/) con prezzi veramente vantaggiosi per gli utenti.
Dunque, potremmo aspettarci una flessione degli utenti e delle pagine viste, una minore sovrapposizione di lettori da un sito all’altro, ma anche una maggiore fidelizzazione di uno zoccolo duro di lettori. Ma, ancora una volta, alla fine del giro, la partita per sostenere il giornalismo di qualità si giocherà sulla pubblicità. La vera sfida degli editori sarà imporre agli inserzionisti costi più alti a fronte di un giornalismo di qualità e un pubblico più fedele anche sul digitale.
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