Anche i media hanno il loro triangolo delle Bermude. Su un lato, il più esteso, si trovano i giornalisti diciamo «ordinari», che si rivolgono al pubblico. Su un altro i giornalisti mediatici, la cui attenzione è rivolta “all’interno”, cioè al sistema mediatico, ai suoi problemi, ai suoi operatori. Sul terzo lato stanno i ricercatori, che indagano con gli strumenti che gli sono propri, su problematiche diverse (dal linguaggio agli aspetti economici, a quelli tecnici) che attengono al mondo dei media. E nel mezzo? Non si sa bene. Dovrebbe essere il luogo dell’incontro e dello scambio proficuo fra esperienza quotidiana, riflessione e approfondimento sistematico. Invece è una zona opaca, per non dire oscura, dove spesso l’incontro non avviene, perché inghiottito dal nulla.
A prima vista il separatore principale è quello che divide i primi dagli altri due. O almeno così la vedono molti operatori “ordinari”, che si sentono osservati, indagati, qualche volta “giudicati” dagli altri e sviluppano quindi spesso nei loro confronti quella sospettosa diffidenza che caratterizza queste divisioni anche in altri ambiti. Si pensi solo, in musica, all’atteggiamento degli strumentisti verso i critici, ma anche verso gli organizzatori di concerti. O, in generale, a quello di chi, in ogni ambito, sta “al fronte” e deve risolvere ogni giorno mille problemi pratici, nei confronti di chi sta “in retrovia” e dà giudizi e consigli su situazioni che osserva comodamente da lontano, senza la pressione che ben conosce la prima linea.
È però un atteggiamento che, da operatore di prima linea, trovo sbagliato. Innanzitutto perché sposta il problema sul piano di un confronto-competizione discutibile. Abituati a osservare, valutare e criticare dal loro osservatorio tutto quanto si muove nel mondo, i giornalisti dovrebbero essere i primi ad accettare che qualcuno li critichi. Soprattutto se da queste critiche possono trarre indicazioni utili a migliore la qualità del loro lavoro.
Ma c’è anche un’altra ragione. Se si guarda al triangolo di cui dicevo con un certo distacco si rischia di scoprire presto che il vero divisore passa in realtà fra i giornalisti – generalisti e mediatici – e i ricercatori. In effetti spesso e volentieri i giornalisti che si occupano di media tendono ad applicare le stesse categorie dei loro colleghi “ordinari”, comprese certe deformazioni tipiche della professione. Ad esempio, più che cercare di analizzare e capire i meccanismi e le ragioni meno evidenti di certi fenomeni mediatici, a cominciare dalla struttura di un certo approccio “giornalistico” alla realtà, tendono a puntare sugli elementi più vistosi, la loro interpretazione, la valutazione e – spesso e volentieri – il pronostico. In altre parole, più che indagare e rivelare i processi soggiacenti che governano il “mestiere” – e di riflesso l’intero apparato mediatico – tendono a descrivere e a commentare. Il che non è affatto sorprendente: si tratta sempre di giornalisti, che obbediscono (più o meno consapevolmente) alle logiche cui sono abituati. Il risultato è un sistema ad alto rischio di autoreferenzialità.
Con questo – sia ben chiaro – non voglio dire che il giornalismo mediatico non sia affidabile o di scarsa utilità. È utilissimo, nella misura in cui dà informazioni, solleva problemi, stimola dibattiti. In altre parole, nella misura in cui è “giornalismo”.
Ma a questo punto diventa ancora più importante la ricerca. Quella che, indagando la pratica giornalistica attraverso un vero apparato scientifico, porta alla luce elementi altrimenti nascosti. Quando a confrontarsi con i media non sono altri giornalisti (che fanno capo al massimo a qualche strumento sociologico) ma linguisti, psicologi, economisti, studiosi delle nuove tecnologie o storici, meglio se in una prospettiva transdisciplinare, allora sì che emergono aspetti e dimensioni che possono fornire ai giornalisti spunti davvero nuovi su cui riflettere. Il che costituisce la migliore premessa per migliorare davvero la pratica. Anche qui il rischio è di innescare meccanismi di difesa che alimentano diffidenze e negazioni. Ma, superati i pregiudizi, credo che questo sia il confronto che può dare i risultati più interessanti. Perché è multidimensionale, non limitato dalla prospettiva di due punti di vista a volte lontani ma sostanzialmente allineati.
In buona sostanza, parlarsi all’interno della famiglia giornalistica è non solo opportuno, ma necessario. Tuttavia fare un ulteriore passo e discutere con chi ti vede da fuori ed è attrezzato con un “liquido di contrasto” che permette di vedere le cose a tre dimensioni, compresi i numerosi (a volte troppo numerosi) “angoli morti”, è ancora meglio.
Giancarlo Dillena è il Direttore del Corriere del Ticino, quotidiano della Svizzera italiana con sede a Lugano.
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