Police Codex, linee guida per la condotta della polizia verso i giornalisti

20 Gennaio 2020 • Libertà di stampa, Più recenti • by

[Mobilus In Mobili [CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)]

È difficile pensare a professioni nei cui confronti ci siano tanti pregiudizi quanti ne esistono verso il mestiere del giornalista e del poliziotto. Questi pregiudizi esistono e si alimentano anche vicendevolmente, da parte dei poliziotti rispetto alle attività dei giornalisti e viceversa. Proprio per questo l’incontro che si è tenuto il 4 dicembre scorso a Bruxelles – tra alcune associazioni europee che si occupano di giornalismo e libertà di espressione e Peter Smets, il rappresentante belga di EuroCOP, la Confederazione Europea della Polizia – è stato particolarmente interessante.

Quel giorno l’European Centre for Press and Media Freedom (ECPMF) ha lanciato il suo “Police Codex”, il primo codice di condotta per la polizia relativo ai comportamenti da tenere nei confronti dei giornalisti in vari tipi di situazioni: quelle potenzialmente più turbolente, come proteste e manifestazioni, ma anche – ad esempio – relativamente alla sorveglianza dei reporter e delle loro fonti. Immediata sorge una domanda, posta anche da Smets: “Perché preoccuparsi in particolare dei giornalisti? Certi tipi di abusi non dovrebbero avvenire sia nei confronti dei giornalisti che di qualsiasi altro cittadino”. Vero: diritti e garanzie come la libertà di espressione devono essere garantiti a tutti. Ma la libertà di stampa merita tutele speciali, perché sotto il suo ombrello viene salvaguardato anche il diritto dei cittadini a ricevere informazioni.

Il Codice si sviluppa in otto linee guida, considerate i punti cruciali da cui partire per un rapporto meno conflittuale e più collaborativo tra giornalisti e polizia:

  1. Qualsiasi violenza perpetrata da personale di polizia nei confronti dei giornalisti è inaccettabile;
  2. I giornalisti hanno il diritto di raccogliere informazioni e la polizia dovrebbe proteggerli da indebite interferenze, soprattutto nel corso di manifestazioni;
  3. I giornalisti dovrebbero avere il diritto di identificare il personale di polizia e di documentare ed informare sul lavoro delle forze di polizia;
  4. La polizia non è autorizzata a cancellare foto e filmati o a confiscare l’attrezzatura giornalistica senza un apposito mandato;
  5. I giornalisti non dovrebbero essere criminalizzati, discriminati o esclusi per le loro presunte attitudini politiche;
  6. I giornalisti non dovrebbero essere oggetto di sorveglianza da parte della polizia;
  7. Se la polizia causa danno, minaccia o molesta un giornalista, queste azioni devono essere poste sotto indagine, condannate e rese pubbliche da organi indipendenti;
  8. La polizia dovrebbe essere formata e regolarmente aggiornata sui diritti dei giornalisti.

Iniziamo a sviscerare queste linee guida partendo da un tipo di contrasto più intuitivo: quello fisico, che avviene in situazioni come scioperi e manifestazioni. Nel solo 2019 sono molti gli esempi di abusi delle forze di polizia su reporter intenti a riprendere proteste come quelle dei Gilet Jaunes in Francia, dove sono stati segnalati circa 120 incidenti, per l’indipendentismo in Catalogna, dove si riportano incidenti contro circa 70 giornalisti o il mancato intervento in difesa di reporter assaliti nel corso di manifestazioni di estrema destra in Germania, specialmente in Sassonia.

Un altro caso recente di violenza della polizia su un giornalista è quello di Stefano Origone, de La Repubblica, mentre copriva una manifestazione antifascista a Genova lo scorso maggio. Questo caso è funzionale a toccare un altro punto del Codice (No. 7): come segnala la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) nel caso Alikaj e altri v. Italia (2011), questi comportamenti dovrebbero essere posti sotto indagine da organi indipendenti, mentre in questo caso le indagini sono state affidate allo stesso corpo di appartenenza degli agenti sospettati di aver commesso gli abusi. Infine, gli abusi “di strada” sollevano il grande tema del riconoscimento degli agenti di polizia (No.3): in alcuni paesi è previsto un numero identificativo per i poliziotti, sul giubbotto antiproiettile in Spagna, sull’elmetto in Germania, ma in altri paesi, invece, come l’Italia, non è prevista alcuna forma di identificazione.

Una delle linee guida del Codice che ha suscitato più dibattito tra i presenti è quella relativa all’inadeguatezza di determinate modalità di sorveglianza sui giornalisti e sulle loro fonti: a questo proposito, è stata richiamata la sentenza della Corte EDU “Big Brother Watch v. UK” (2018), con cui il Regno Unito è stato condannato per aver violato il diritto alla privacy e la libertà di espressione dei giornalisti coinvolti. Tra le altre cose, le forze di polizia britanniche hanno utilizzato la legislazione antiterrorismo per ottenere i registri delle conversazioni telefoniche di un giornalista del The Sun, in modo da indagare indirettamente su una sua fonte in un caso di scandalo di corruzione politica. Due i punti chiave di questa sentenza, che ritornano in molti altri casi- europei e non- di sorveglianza delle forze dell’ordine sui giornalisti: legislazioni speciali come quella antiterrorismo permettono di aggirare la necessità di un’autorizzazione del giudice per determinati tipi di operazioni; inoltre, spesso, l’obiettivo principale della sorveglianza non è il giornalista in sé e per sé, ma sono piuttosto le sue fonti. Come ha specificato la Corte la protezione delle fonti è invece cruciale per difesa della libertà di stampa, poiché rivestono un ruolo importantissimo per i giornalisti nello sviluppo di inchieste di grande interesse pubblico.

Nell’elaborare un codice di condotta europeo bisogna infine considerare che le pratiche degli organi di polizia e le possibilità di dialogo tra questi ultimi e il mondo della stampa differiscono molto a seconda del paese: la situazione in Belgio, come descritta da Peter Smets, è difficilmente comparabile con quella spagnola o turca. In alcuni contesti, per gli operatori dell’informazione “non ha senso denunciare le molestie ricevute dalla polizia” – come detto dal giornalista bosniaco Ivan Begić, malmenato lavorando ad una manifestazione – per una diffusa consapevolezza dell’impunità degli agenti. Bisogna quindi tenere conto dei diversi background culturali e della diversa situazione di separazione dei poteri che vige nei paesi europei: come ha sottolineato anche il rappresentante di EuroCOP, la gestione degli organi di polizia è considerata ancora questione interna ai singoli stati, sovranità da non cedersi, per cui è difficile lavorare in cooperazione tra corpi internazionali e stabilire standard comuni.

In quest’ottica, l’educazione sembra il primo passo: è auspicabile che le associazioni che hanno elaborato il “Police Codex” con ECPMF, Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, European Federation of Journalists, Index on Censorship, Ossigeno per l’informazione e South East Europe Media Organisation, mantengano viva la collaborazione con EuroCOP per organizzare in diversi paesi occasioni di formazione per gli agenti di polizia sulla figura, il ruolo e i diritti dei giornalisti.

È necessario ripensare a un rapporto tra polizia e giornalisti in chiave più collaborativa che conflittuale. Filosoficamente parlando, l’obiettivo finale di entrambi dovrebbe essere concorde: lavorare per una società più equa, trasparente, sicura. Dove la sicurezza, però, sia “safety più che security”: sicurezza sociale, benessere come welfare, servizi ai cittadini; non strumento sproporzionato al giogo di paure individuali, che richiama invece un’ammonizione vecchia quasi 200 anni: Jeremy Bentham, infatti, ricordava che libertà significa “sicurezza dai criminali da un lato, e dagli strumenti del governo dall’altro”.

Articolo pubblicato in collaborazione con Osservatorio Balcani e Caucaso Transeruopa.

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