È il tema dello studio “Chasing Sustainability on the Net” una ricerca internazionale sulla sostenibilità delle startup giornalistiche digitali
“ L’ambiente dei media sta cambiando. La stretta alla gola dei mass media sulla produzione e distribuzione sta diminuendo e gli imprenditori dei media stanno progressivamente prendendo il loro posto in una ecologia frammentata dei media. La nuova era dell’imprenditorialismo non è confinata alla Silicon Valley ma sta ridefinendo il significato del giornalismo” scrivono Esa Sirkkunen, Clare Cook and Pekka Pekkala, nell’introduzione che apre questo studio, realizzato da tre scuole di giornalismo che si sono consorziate per l’occasione, USC Annenberg in California, University of Tampere in Finlandia e la Waseda University di Tokyo e che si sono poste l’obiettivo di definire quale sarà l’ambiente per il giornalismo del futuro.
Tra gli altri autori, Nicola Bruno, che ha curato il capitolo relativo all’Italia e che abbiamo intervistato per l’occasione (in coda a quest’articolo) .
Il rapporto definisce la mappatura di 69 startup giornalistiche “pure player” digitali, in 9 paesi del mondo (Finlandia, Francia, Germania,Irlanda, Italia, Giappone, Slovacchia,Spagna, Inghilterra, Stati Uniti) con una particolare attenzione a quelle che hanno come obiettivo la propria sostenibilità.
Include un database online (SuBMoJour database ) comprendente il dettaglio dei modelli economici di queste aziende ed una analisi di accompagnamento. Il database e l’analisi che lo accompagna tende ad individuare i trend nei modelli di ricavo e traccia il cambiamento evoluzionistico del business giornalistico attraverso i confini e le culture.
In esso, i dati possono essere ricercati sulla base dei flussi di ricavo, come i modelli pubblicitari, i modelli contenutistici, i ricavi annuali, la vendita di prodotti, le dimensioni dello staff, etc..
Il database (Sustainable Business Models for Journalism) vuole essere uno strumento di ricerca e sviluppo, di open innovation che funga come una guida per la creazione di modelli di ricavo per aziende online.
Sono individuate due tipologie di startup: quelle con modello economico orientato alla produzione di contenuti e quelle che puntano più su un modello orientato ai servizi. I siti orientati alla produzione dei contenuti sono risultati prevalenti. In questi siti la differenza con i mass media è data dal fatto che l’audience di riferimento è inferiore : il giornalismo online conta maggiormente su nicchie di pubblico orientate a temi specifici quali hobbies, quartieri e tendenze psicografiche (stili di vita, orientamento culturale e politico, tratti della personalità ecc.).
In questo giornalismo di nicchia vi è una stretta interconnessione tra contenuti giornalistici e prodotti pubblicitari. L’altro gruppo, economicamente orientato ai servizi, appare in crescita. Questi siti sembrano non tentare di monetizzare il contenuto giornalistico in quanto tale.
Affermano gli autori che, nel mondo del giornalismo, c’è stata una carenza di innovazione nell’individuare nuovi modelli economici. Sarà’ inevitabile lo spostamento della pubblicità dalla carta verso l’online e vi sono inoltre più competitors per i media tradizionali nel business della pubblicità che raccolgono enormi quantità di dati degli utenti e che possono indirizzare la pubblicità a segmenti più piccoli e definiti, e fare questo in maniera più conveniente.
Anche il pubblico è cambiato, con l’aspettativa di poter fruire delle ultime notizie gratuitamente.
La lettura è più sporadica ed irregolare rispetto alla carta stampata e non è ancora chiaro in quali casi i modelli di abbonamento funzionino per l’online. Le notizie sono consumate e distribuite online attraverso i social media che sono la piattaforma più popolare per la distribuzione dei contenuti e i “pure players” stanno crescendo in quanto i loro modelli di produzione e generare i contenuti e le idee di business sono fatte esclusivamente per funzionare online.
La metodologia di studio è basata sulla raccolta di interviste semistrutturate, realizzate nei diversi paesi, con un consistente set di domande.
Al fine di poter comparare le differenti situazioni nei vari paesi coinvolti si è cercato di individuare le caratteristiche dei media in ciascun singolo paese. E’ stato considerato anche il modello sviluppato da Hallin e Mancini, anche se, nel procedere con la ricerca ci si è resi conto che tale modello era per alcuni versi superato (riferendosi già lo studio di H&M agli anni 80) e soprattutto non del tutto riferibile al mondo digitale.
In conclusione non sono stati riscontrati nuovi meccanismi di ricavo o di flussi economici ma la sostenibilità è il risultato del modo con cui le startup diversificano e connettono in modo nuovo le esistenti fonti di ricavo. E proprio la diversificazione dei “business models” è il tema centrale che attraversa tutti i paesi oggetto della ricerca. Questa ricerca conferma quelle che erano state le conclusioni del rapporto Kaye and Quinn del 2010 nel definire l’obsolescenza dei modelli di business del giornalismo tradizionale. Lo studio conferma infatti la loro previsione che non vi è un’unica soluzione valida per tutti ma che ciascun attore debba contare su una combinazione di fonti di ricavo per far fronte alla frammentazione dei mercati dei media, alla connettività sociale ed alla internazionalizzazione dei mercati delle notizie.
Intervista a Nicola Bruno
Nicola Bruno è giornalista professionista e co-fondatore di Effecinque, agenzia specializzata nello sviluppo di formati innovativi per l’informazione online. E’ stato Journalist fellow al Reuters Institute for the Study of Journalism presso l’Università di Oxford, dove ha di recente pubblicato “Survival is Success. Journalistic Online-Only Start-ups in Western Europe”. Ha scritto insieme a Raffaele Mastrolonardo La Scimmia che vinse il Pulitzer. Personaggi, avventure e (buone) notizie dal futuro dell’informazione (Bruno Mondadori, 2011). Scrive e ha scritto di cultura digitale per quotidiani e settimanali, di carta e di web, tra cui Sky.it, Corriere della Sera, il manifesto, D-Repubblica.
Con questo studio mi sembra che finalmente si inizi a guardare il mondo del giornalismo prevalentemente. dal lato dell’ “online”…
“Si, diciamo che alla base di questa ricerca – così come dell’altra simile che ho realizzato per il Reuters Institute – c’è la consapevolezza che, mentre si sta per esaurire il dibattito sulla ‘fine della carta’ che ha dominato la scena negli ultimi anni, bisogna capire meglio sia le opportunità che le sfide e le incognite poste dal passaggio al digitale.
Capire come funzionano e come possono essere sostenibili i pure-player significa fare i conti con un problema fondamentale per le nostre democrazie. Che ne dicano molti detrattori – la stampa cartacea è stata (e per molti aspetti lo è ancora) uno dei capisaldi delle moderne democrazie. Le nuove testate solo-online garantiranno la stessa indipendenza, pluralismo, capacità di confrontarsi con i poteri forti? Per rispondere a questa domanda, non basta guardare solo a quanto sono aperti e innovativi i processi editoriali che vogliono introdurre. Ma bisogna guardare anche all’aspetto finanziario: se i paywall e la pubblicità – come emerge da molti case-studies – non potranno garantire la sostenibilità, quali saranno le altre fonti di guadagno? Avremo (ancora una volta, almeno per l’Italia) i soliti poteri forti a controllarla? Come dire, ora più che mai bisogna innovare non solo il prodotto giornalistico, ma anche i presupposti finanziari che ne garantiscono la sopravvivenza.”
Sembrerebbe che per le startup, ovvero per i giornalisti del futuro, non si possa prescindere dallo spirito imprenditoriale. “Entrepreneural Journalism” sarà la parola chiave per chi vuol svolgere questa attività ?
“Questo vale soprattutto per le start-up che sono costrette a muoversi in uno scenario digitale in cui le incertezze sono ancora tante. Quello che serve è uno spirito imprenditoriale curioso e coraggioso, capace di provare senza avere paura di fallire. Anche perché – come emerge dal report – ancora nessuno ha trovato la formula magica o la soluzione che va bene a tutti. Sia i grandi attori che quelli piccoli si muovono in un mare di incertezze, ma i secondi hanno il vantaggio di poter osare di più e, magari, in mezzo ai fallimenti inevitabili, trovare la strada giusta.”
Mentre i media tradizionali stanno soffrendo profondamente questa transizione verso il digitale, i “pure players” digitali sembrano avvantaggiati anche perché appunto non devono “riconvertire” alcunché. Eppure dal rapporto si evince che anche per questi la maggiore fonte di ricavo resti la pubblicità. Quali tra le nuove eventuali fonti di reddito ed iniziative , quelle che hanno spiccato per originalità e sostenibilità?
“La pubblicità resta una fonte di ricavo comune a molte start-up, ma anche quella che – da sola – garantisce meno possibilità di sopravvivenza. Da una parte perché i colossi americani come Google e Facebook ormai controllano gran parte di questo mercato (e ne trattengono larghe quote). Dall’altra perché quello che resta va diviso tra player che non sono solo i propri diretti concorrenti, ma chiunque abbia una presenza online. La concorrenza si è moltiplicata e, per di più, il valore della pubblicità (almeno nella sua variante CPM) è destinato a crollare ancora di più, provocando guadagni sempre più inconsistenti per i piccoli player e insufficienti per i grandi player. E’ per questo che la strategia più interessante che emerge dai 69 casi analizzati è quello della diversificazione: mai puntare solo su un’unica fonte di introiti, ma sperimentarne sempre di diverse. E, quindi, oltre alla pubblicità, anche i prodotti premium (e-book, feature interattive), i servizi (training, organizzazione eventi, realizzazione progetti web).”
Nel sistema delle startup italiano, sembrerebbero emergere per modello economico, imprenditorialità e innovazione le piccole agenzie di informazione. Ci puoi descrivere questo fenomeno?
“Questo fenomeno è stato ben analizzato da Mauro Sarti in un recente numero di “Problemi dell’Informazione”. Si tratta di una caratteristica tutta italiana – almeno da quanto emerge da questo report – per cui prendono sempre più piede piccole realtà giornalistiche che lavorano per lo più in ottica business-to-business. Sono una sorta di ‘boutique’ dell’informazione, che puntano più alla qualità che alla quantità. Si rivolgono ai grandi player del mercato dei media, oltre che a quello corporate; quasi mai hanno testate indipendenti (e quando le hanno servono per lo più come posizionamento, non come strategia di business). Spesso chi lavora in queste start-up si sente parte integrante del progetto imprenditoriale, e questo favorisce la creatività, l’innovazione. E’ proprio in alcune di queste agenzie che negli ultimi anni sono stati sperimentati alcuni dei progetti più innovativi di data-journalism, multimedia storytelling, crowdsourcing reporting, etc. Tra l’altro una struttura agile e leggera, con costi operativi bassi, sembra anche essere il profilo migliore per muoversi in uno scenario dei media sempre più turbolento.”
Nella definizione dei “media landscape” si è partiti dalla differenziazione operata da Hallin e Mancini nel 2004, con la consapevolezza che quel sistema era “vecchio” ma soprattutto rivolto al mondo dei media tradizionali. Quali sono state le principali novità nella ridefinizione di questi sistemi in funzione del digitale?
“La comparazione tra i diversi paesi costituisce sempre l’aspetto più difficile delle ricerche di questo tipo. E questa difficoltà aumenta quando si passa al digitale dove, rispetto alla carta o alla tv, c’è molta più eterogeneità di formati e strutture. Le categorizzazioni di Hallin e Mancini restano fondamentali per capire il contesto da cui emergono queste nuove realtà: ad esempio, in Italia e Francia molti pure-player sono nati proprio per offrire un’informazione ‘indipendente’ a fronte di un’informazione tradizionale spesso invischiata con i poteri economici. Lo stesso non è accaduto in Germania, dove, a fronte di una stampa ancora forte, sono nate pochissime start-up giornalistiche.”
Il database, come scritto nell’introduzione, oltre ad essere la base per il lavoro attuale di analisi, vuole rappresentare uno strumento di “open innovation”. Sarà implementato ed aperto? L’analisi continuerà con la raccolta di nuovi dati?
“Si, l’idea alla base è proprio quello di farlo diventare aperto e, soprattutto, continuare ad aggiornarlo, in modo da riuscire a comprendere meglio uno scenario che evolve rapidamente. Sto aspettando aggiornamenti su quali saranno i prossimi passi del progetto, vi terrò sicuramente aggiornati!”
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