Il concetto di “ibridità” viene spesso utilizzato per descrivere sistemi mediatici che sembrano sperimentare contemporaneamente diverse tendenze, in un flusso di cambiamento continuo. Hallin, Mellado e Mancini (2023) hanno analizzato gli usi di questo termine, dove è utile e dove è troppo vago.
I modelli mediatici di Hallin e Mancini (2004) sono tra i più noti e influenti negli studi sui media. Utilizzando diverse variabili, i due ricercatori hanno classificato i sistemi mediali in Europa e in Nord America in diverse categorie, creando così una tipologia che viene utilizzata ancora oggi negli studi sulla comunicazione.
Tuttavia, i modelli sono stati sviluppati solo sulla base dei casi di studio esaminati e non sono intesi come categorizzazioni uniche o universalmente valide. Applicando i modelli ad altri sistemi mediali o in altri momenti, molti ricercatori si sono resi conto che i modelli non si adattavano a questi casi, o lo facevano solo in parte. Al contrario, sono emerse nuove forme ibride che combinano elementi di diverso tipo e aspetti completamente diversi tra loro. Poiché i modelli di Hallin e Mancini rimangono comunque punti di riferimento importanti, il termine ibridazione entra spesso in gioco in questi casi.
In un articolo accademico pubblicato nel 2023 sull’International Journal of Press/Politics, David Hallin, Paolo Mancini e Claudia Mellado hanno esplorato le opportunità e i limiti di questo concetto, discutendo su come il termine venga utilizzato in relazione agli studi sui sistemi mediatici, quando e quanto sia utile e dove invece impedisca analisi più specifiche.
Hallin e Mancini (2004) distinguono tra il modello mediterraneo o pluralista polarizzato, il modello nord e centro europeo o democratico-corporativo e il modello nord atlantico o liberale. La classificazione si basa su quattro variabili: la struttura del mercato dei media, il parallelismo politico, il grado di professionalizzazione giornalistica e il ruolo dello Stato, compreso il grado di intervento statale nei media (p. 296). I tre modelli sono tipi ideali che si avvicinano solo ai sistemi mediatici reali, ma hanno lo scopo di semplificare il confronto internazionale (p. 297). Anche altri ricercatori, come Siebert et al. (1963) e Blum (2005), hanno sviluppato tipologie di sistemi mediali.
Sistemi mediali in evoluzione
Secondo Hallin, Mellado e Mancini, il concetto di ibridità “si riferisce a una combinazione di elementi “dissimili” che nascono attraverso processi di mescolanza, prestito e appropriazione” (p. 220). Il concetto deriva originariamente dalla biologia. In relazione ai sistemi mediali, si verifica con particolare frequenza in relazione ai processi di cambiamento come la globalizzazione e la digitalizzazione e ai loro effetti sui sistemi mediali. Essi influenzano la regolamentazione dei media, le istituzioni e i processi di lavoro giornalistico – e in ultima analisi ciò che si intende per “giornalismo” o “professionalità”.
Da un lato, secondo gli autori, il concetto di ibridità è utile per mappare ed esaminare questi cambiamenti, soprattutto rispetto alle precedenti ricerche sui media europei, che spesso si sono concentrate maggiormente sulla stabilizzazione delle istituzioni e delle norme. D’altra parte, il suo potere analitico è smorzato dalla sua eccessiva applicazione a molti casi diversi. Ciò rende il concetto meno preciso, creando lo stesso problema dell’applicazione eccessiva del modello di sistema mediatico polarizzato-pluralistico ad altri sistemi mediatici, molto diversi e che si assomigliavano solo per la loro deviazione dal tipo liberale o democratico-corporativo.
Invece di essere abusato come semplice spiegazione di una moltitudine di fenomeni diversi, gli autori raccomandano di usare l’ibridità come “concetto sensibilizzante”, seguendo il principio di Blumer. Di conseguenza, l’ibridità può indicare processi di cambiamento sociale o sistemico e quindi essere un riferimento per fenomeni che non sono ancora stati studiati empiricamente, ma che devono essere specificati nella fase successiva per trattare i diversi fenomeni in modo sufficientemente differenziato. Per chiarire il significato del termine, Hallin, Mellado e Mancini hanno mappato i contesti più comuni in cui il concetto viene utilizzato.
I nuovi media e il loro impatto sui sistemi mediali
Questa tendenza era già stata osservata con la diffusione della televisione: La regolamentazione e i mercati dei media devono costantemente reagire a questi nuovi formati e fornitori. Sono emersi anche fenomeni come l'”infotainment”, che hanno sfidato i confini dell’informazione giornalistica tradizionale. I social media hanno naturalmente portato a cambiamenti ancora maggiori, tra cui la possibilità per tutti gli utenti di produrre autonomamente contenuti e la necessità di definire il ruolo del “giornalista”.
Flussi di informazione geografica, decolonialismo e culture giornalistiche
La globalizzazione, la modernità e le possibilità offerte dall’innovazione tecnologica garantiscono la diffusione di informazioni, norme e istituzioni al di là dei confini culturali e geografici. Non da ultimo, voci importanti degli studi culturali postcoloniali come Homi Bhabha hanno analizzato l’ibridità come una miscela di informazioni globali e locali determinata da squilibri di potere. In relazione ai sistemi mediatici, ciò include anche l’influenza dei paesaggi mediatici locali attraverso il colonialismo o più tardi attraverso la cooperazione per lo sviluppo dei media. Questo può portare alla coesistenza di elementi liberali e più tradizionali o addirittura autoritari. Anche in questo caso possono sorgere domande sui limiti dei concetti, ad esempio se possano esistere norme universali per la professionalità giornalistica o se queste siano imposte dalle differenze di potere.
Ibridazione come caratteristica generale del lavoro giornalistico
Il fatto che i giornalisti debbano affrontare diverse influenze nel loro lavoro quotidiano, può portare a profili e generi di lavoro ibridi: ad esempio, un reporter che si occupa di celebrità per i tabloid può essere soggetto alle regole giornalistiche e al funzionamento della redazione da un lato, ma anche alle caratteristiche stilistiche e comportamentali dell’industria dello spettacolo dall’altro. La ricerca sulle prestazioni dei ruoili giornalistici di Mellado et al. getta un faro su questo aspetto, descrivendo come i giornalisti possano entrare in conflitti di ruolo a causa di richieste, ad esempio a livello di legislazione, di redazione, ma anche di contatti personali. La “soluzione” è quindi talvolta una prestazione di ruolo ibrida che tenta di soddisfare diverse esigenze.
Tutto ibrido?
Secondo gli autori, il rischio di questo uso diversificato del concetto di ibridità è che tutti i fenomeni complessi nel settore dei medi vengano etichettati come “ibridi” senza tenere conto delle differenze sottese. Questo porterebbe rapidamente all’idea che in un mondo globalizzato e digitalizzato esistano solo culture giornalistiche ibride. Tuttavia, il compito analitico delle scienze della comunicazione sarebbe quello di dare un nome più specifico a queste culture, confrontarle tra loro, individuando somiglianze e differenze. “Affidarsi” eccessivamente all’apertura del concetto di ibridità potrebbe portare a non sviluppare concetti nuovi e differenziati.
Dopo tutto, ibrido significa che elementi diversi di vecchi modelli e teorie coesistono o si mescolano tra loro. Ma non potrebbe anche essere che si stia considerando qualcosa di completamente nuovo? A titolo di esempio, gli autori citano la ricerca di Katrin Voltmer sui Paesi in transizione in cui pur essendoci elezioni non sussiste il concetto di democrazia come la intendiamo in Occidente: Si tratta quindi di un semplice mix di democrazia e autoritarismo, un tentativo “fallito” di copiare le democrazie liberali, per così dire, o sarebbe piuttosto utile togliersi i vecchi occhiali analitici e sviluppare concetti completamente nuovi a partire dal caso di studio stesso? Forse questo potrebbe permettere una nuova comprensione che non potrebbe essere raggiunta con gli schemi di pensiero esistenti.
Cosa è già certo?
Il concetto di ibridità descrive una fusione di elementi diversi e si presume generalmente che non ci sia Paese o sistema mediatico, cultura giornalistica e anche individuo che non combini un’ampia varietà di caratteristiche. L’ibridazione è un’idea che si basa sul rifiuto del dualismo: d’altra parte, l’interesse per l’ibridazione risiede proprio nel fatto che si distingue da un’idea di stabilità o di omogeneità. Chi esamina l’ibridazione di un sistema mediatico attraverso l’emergere di piattaforme big tech e altri social media sembra dare per scontato che in precedenza il sistema mediatico fosse più “omogeneo”. Ma è davvero così o era già ibridato quando la televisione e la radio hanno sostituito un sistema mediatico puramente cartaceo?
Per contrastare queste contraddizioni, Hallin, Mellado e Mancini suggeriscono di parlare di cicli di ibridazione. Secondo gli autori, i sistemi mediali sono sempre stati ibridi e mutevoli; il progresso tecnologico, l’influenza reciproca di diversi spazi geograficamente e culturalmente marcati e la coesistenza di diversi tipi organizzativi di aziende mediali e generi sono sempre esistiti. Ciò che una volta era ibrido può stabilizzarsi e poi essere nuovamente ibridato, mescolato con altri elementi. Tuttavia, le scienze della comunicazione tendono al “presentismo”, cioè a considerare il presente solo come nuovo e ibrido. Una prospettiva storica potrebbe aiutare a non fermarsi all’osservazione dell’ibridazione, ma a descrivere più precisamente in cosa consiste il cambiamento. Inoltre, non si può negare come alcuni fenomeni in certi sistemi tendano a stabilizzarsi (in molti sistemi mediatici occidentali, ad esempio, attraverso l’istituzionalizzazione e la professionalizzazione), mentre altri sperimentano il contrario e sono quindi più facilmente influenzati dai sistemi stabili.
Forse, secondo gli autori, la popolarità del concetto di ibridità deriva dall’impressione che il giornalismo stia attraversando un momento di particolare rottura e crisi. A loro avviso, l’ibridità è universale e non è né nuova né insolita: per mantenere una sufficiente nitidezza analitica, è quindi necessario definire esattamente cosa si sta analizzando. Un approccio di questo tipo sarebbe utile anche per altri concetti popolari nella ricerca sul giornalismo, come quello di media capture, e che rischiano sempre più spesso di essere eccessivamente abusati e e generalizzati.
Riferimenti bibliografici:
Hallin, D. C., Mellado, C. e Mancini, P. (2021). The Concept of Hybridity in Journalism Studies. The International Journal of Press/Politics, 194016122110397. https://doi.org/10.1177/19401612211039704
Articolo tradotto dall’originale.
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