Non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli – diceva Oscar Wilde, e l’affermazione può ben applicarsi al ritorno di Newsweek in edizione cartacea. Il magazine che per varie decadi è stata l’icona liberal dei settimanali americani – contrapposto al più conservatore Time – dopo due anni di sola edizione digitale, voleva fare il botto, e l’ha fatto. Con un’inchiesta un po’ così, sulla presunta identificazione del creatore della valuta virtuale Bitcoin.
Un’indagine che è stata criticata da più parti – l’impressione ricorrente è che più che una rivelazione vera e propria, il giornale abbia servito al pubblico delle prove indiziarie, non sufficienti a chiudere il caso. Può darsi che Jim Impoco, il direttore, non si aspettasse una reazione così esasperata da parte degli adepti di Bitcoin, con tanto di insulti personali all’autrice del pezzo Leah McGrath Goodman ed è molto probabile, anzi, dato che Impoco ha dichiarato in una recente intervista di aver deciso di mettere la reporter sotto scorta, anche se il giornale non se lo potrebbe permettere.
Guardando il bicchiere mezzo pieno, di certo il nuovo sbarco della testata in edicola non è passato inosservato. Le polemiche hanno però offuscato le novità dell’esperimento tentato dalla casa editrice IBT, che ha rilevato nell’agosto scorso la proprietà di Newsweek. Come ha scritto Michael Wolff sul Guardian, in fondo, molte delle critiche rivolte alla rinata pubblicazione erano motivate soprattutto da un paragone impossibile con una testata che non c’è più.
Sì, forse il “vecchio” Newsweek non avrebbe mai mandato in stampa una storia che non reggeva fino in fondo. Sì, il reportage su Bitcoin forse era più roba da BuzzFeed o da Gawker (con tutto il rispetto per queste più che degne pubblicazioni), ma non è questo il punto. Il punto è che i giovani nuovi proprietari del marchio, Etienne Uzac e Jonathan Davis, saranno giovani – sono tutti e due poco più che trentenni – ma non sono certo degli sprovveduti. E l’operazione di rilancio che stanno tentando, dopo aver rilevato Newsweek con la casa editrice IBT, è interessante e per certi versi anche coraggiosa. Certo, fa impressione sapere che la distribuzione iniziale sarà di sole 70.000 copie (contro i tre milioni raggiunti da Newsweek all’apice della gloria).
La nuova gestione non ha nulla dell’allure di quella di Tina Brown, stella del giornalismo a stelle e strisce, che ha cercato invano di ridare vita allo storico magazine a colpi di firme prestigiose e inchieste roboanti. Ma proprio perché diversa, e forse più realistica, la gestione Uzac-Davis potrebbe riuscire dove altri hanno fallito. Prima di tutto, il riposizionamento. Il nuovo Newsweek venderà molte meno copie, ma a un prezzo decisamente più alto.
I due imprenditori hanno quindi capovolto quello che fin qui era l’approccio tradizionale dei periodici: allargare il più possibile la base di abbonati e cercare di vendere le copie al prezzo più accessibile. L’idea al contrario è quella di offrire un prodotto quasi di lusso – la grammatura della carta è quasi doppia rispetto a quella di Time – patinato, per chi non vuole leggere notizie e approfondimenti su uno schermo retroilluminato. Dando modo agli inserzionisti, che a tutt’oggi sono inclini a investire cifre maggiori per l’advertising sulla carta che per acquistare spazi pubblicitari su Internet, di rivolgersi a dei lettori sofisticati e, si presume, facoltosi.
La maggior parte dei ricavi, in ogni caso, secondo quanto dichiarato dagli editori, dovrebbe arrivare dai margini sulle vendite; la limitata diffusione dovrebbe permettere di contenere i costi di stampa e distribuzione e il prezzo di copertina elevato garantire un buon utile. Sempre ammesso, ovviamente, che si trovino i lettori. Da questo punto di vista, la coppia Uzac-Davis conta molto da un lato sulla forza, tutt’ora non disprezzabile, del marchio Newsweek (due milioni di follower su Twitter, ad esempio), dall’altro sulla mailing list di precedenti abbonati che si è ritrovata in dote quando ha acquistato la rivista dall’ultimo proprietario. Basterà?
Difficile a dirsi, dipenderà da vari fattori. Per esempio, da quale percentuale degli indirizzi di email e di posta tradizionale dei vecchi sottoscrittori si dimostrerà essere ancora valida dopo due anni dall’ultima uscita del cartaceo. E da quanti, fra gli utenti tutt’ora raggiungibili, saranno disposti a riattivare l’abbonamento e spendere quei 150 dollari l’anno per l’edizione cartacea e digitale oppure 40 dollari per il solo Web. Sono tanti, sono pochi? Dipende da come li si guarda. Di certo molti di più di quelli chiesti da Time, 30 dollari per entrambe le edizioni; o dal New Yorker (79 dollari l’anno) ma molti di meno di quelli chiesti, ad esempio, dal New York Times per ricevere la sola edizione domenicale: 5 dollari la settimana ovvero 260 dollari l’anno.
A regime, il magazine dovrebbe “tirare” centomila esemplari per l’edizione U.S. e altri centomila per l’edizione europea. Quest’ultima è ancora in cantiere: il quartier generale sarà a Londra, dove il caporedattore Richard Addis sta reclutando in questi giorni i primi collaboratori. La linea scelta da Davis e Uzac sembra quella di crescere con moderazione un passetto alla volta. Come del resto i due imprenditori hanno fatto con successo per il loro network di siti di informazione online, a partire dall’ammiraglia International Business Times. È facile definire IBT come un “tiny publisher”, come ha fatto il New York Times: sta di fatto che per quanto piccolo, è un editore nato dal nulla, senza avere alle spalle grossi fondi di investimento, ma solo grazie al lavoro dei due soci, e che dopo il debutto nel 2006, in quattro anni, è riuscito ad andare in utile. Oggi IBT pubblica dieci siti di notizie, per un totale di 40 milioni di visitatori mensili, e dà lavoro a 240 persone. In un mondo giornalistico che si lamenta in continuazione dei magri ricavi, questa da sola è una notizia.
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