Un modello di informazione economicamente non sostenibile? Nulla può cambiare se non si affronta il problema alla radice, ovvero, come dice Kurt Wimmer del Media Institute, modificare il ruolo di Google
Media Institute, autorevole organizzazione non-profit dedicata all’analisi del mondo della comunicazione, ha appena pubblicato un documento a firma di Kurt Wimmer dal titolo Digital Journalism: the audience is here. But who’s monetizing the content?“. Di fatto, il documento è un atto di accusa nei confronti di Google. Wimmer invita il Governo americano a prendere misure adeguate per contrastare conseguenti e ulteriori effetti negativi: “ … Google ha il monopolio nel controllo degli accessi ai contenuti, posizione che determina condizioni critiche e non più tollerabili sia per l’ecosistema dell’informazione, sia per la democrazia stessa”
Per quanto riguarda l’informazione, l’assunto di base, come implicitamente espresso dal titolo, è che il giornali, grazie a internet, abbiano oggi un pubblico molto più numeroso rispetto al passato. Il problema è trovare una formula che possa garantire la sopravvivenza di questo ecosistema, ovvero monetizzare i contenuti. Ma un’azione di questo tipo, secondo Wimmer, non è realizzabile senza mettere in discussione il ruolo di Google.
Per Wimmer il nucleo della questione è tutto qui: chi monetizza i contenuti nell’era digitale, chi fa i soldi veri, non sono più i gruppi che creano e producono informazione, ma altri soggetti. Insomma, i giornali sono in crisi perché non partecipano alla spartizione del valore generato dalla nuova monetizzazione… e i profitti ricadono su Google o su altri soggetti che operano nella logica di intermediazione e aggregazione delle notizie.
I siti web più popolari crescono in numero di visitatori. Nell’aprile di quest’anno la crescita media registrata a partire da gennaio 2010 è stata del 10%. Soffre la carta stampata che continua a perdere lettori. Una situazione comune a molti giornali. Basti pensare al Wall Street Journal, che nel 2009 ha perso 20 mila copie, ma ha guadagnato 31 mila nuovi lettori online a pagamento determinando così un saldo in attivo: + 11 mila lettori. Un altro esempio citato nel documento è il Washington Post: sommando print e online, raggiunge oggi più di due terzi della popolazione adulta residente nell’area metropolitana.
Di contro la televisione rimane il media preferito. Nel 2009, in base ai dati Nielsen Media Research, l’americano medio ha trascorso davanti alla tv 140 ore al mese, più o meno le stesse dell’anno precedente. Ma per quanto attraente continui a essere la televisione questo non significa che non esista spazio per una distribuzione alternativa di contenuti video: anno su anno, si legge nel documento, la progressione della componente internet video è stata del 35%. Un fatto positivo, cresce l’audience su internet, ma preoccupante al tempo stesso, perchè la piattaforma più popolare, YouTube, è di proprietà di Google.
L’espansione del giornalismo dal mondo tradizionale al mondo online ha determinato una risposta a una nuova domanda. Esiste un equilibrio di mercato, esiste un equilibrio tra domanda e offerta. Si tratta ora di coniugare questa dinamica da un punto di vista economico. E’ vero, il contributo corrisposto dall’online, è per il momento insufficiente, ma gli assetti tradizionali stanno a poco a poco modificandosi. Wimmer cita l’esempio di Gannett, editor di Usa Today e il più importante gruppo editoriale americano: nel 2009 i ricavi digitali hanno raggiunto la cifra di 1 miliardo di dollari contro un valore complessivo di 5,6 miliardi. Gli effetti tendenziali di uno spostamento della pubblicità da carta e online continueranno a essere positivi, ma non sufficienti. Per riequilibrare il mercato – sostiene l’autore di Media Institute – è necessario andare al cuore della questione, mettere in discussione il ruolo di Google.
“Quest’ultimo, nel 2009, ha fatturato 23 miliardi di dollari, ricavi che sono stati generati monetizzando i contenuti prodotti da altri in una condizione di monopolio de facto: il 70% delle ricerche internet negli Stati Uniti avviene tramite Google e in Europa la percentuale arriva al 90%”, afferma Wimmer
Il processo che determina la ricerca dell’informazione è ormai il motore di ricerca: lo utilizza a questi scopo l’88% della popolazione adulta di internet negli Stati Uniti. Non dovremmo essere preoccupati di tutto questo?, conclude Wimmer. Non è allarmante il fatto un’unica entità controlli l’accesso ai contenuti di una percentuale così ampia dei cittadini?
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