E’ l’11 ottobre quando una delle donne più potenti del giornalismo, la greco-americana Arianna Huffington, annuncia: “Arriveremo presto a lanciare l’Huffington anche da voi in Italia, la vostra è una realtà interessante, basti pensare al vostro premier”. Nel 2011 l’Huffington Post decide di uscire dal cortile di casa e di piantare altre bandierine sul mappamondo dell’informazione: comincia con Canada e Gran Bretagna, punta poi alla Francia e a più di dieci nazioni nel bacino di America Latina, Australia, India. Anche l’Italia è nel piano di conquista. In tre anni, gli utenti unici dell’Huffington sono cresciuti del 588 per cento, e a maggio 2011 superano quelli del New York Times: 35,6 milioni di visitatori contro i 33,6 milioni del Times, lo State’s leading newspaper sin dal 1851. Il successo è evidente. Eppure nel 2005, quando la Huffington investe assieme a Ken Lerer 10 milioni di dollari sul progetto di un “conversational group blog and aggregator”, nessun osservatore intravede in quel progetto ibrido un primo passo verso l’informazione globale di nuova generazione. Dopo sette anni di vita, HuffPo vale 315 milioni di dollari e il patto siglato con AOL dà ancora più spinta all’impresa.
La Huffington vende la sua creatura e allo stesso tempo rilancia il progetto. In pochi anni la ex candidata governatrice della California è passata di trono in trono: prima “queen of aggregation”, poi presidente ed editor in chief dell’Huffington Post Media Group. Si prepara ora a conquistare il mondo.
Fuori dai canoni
Modello vincente oggi, nel 2005 l’Huffington Post è considerato un Frankenstein del giornalismo: oltre all’idea chiave di blog collettivo focalizzato sulla politica, il progetto gioca la carta dell’aggregazione di contenuti prodotti da altri, attirando a sé ferocissime critiche di parassitismo (nei confronti degli altri giornali) e di sfruttamento (perché molti contenuti non vengono retribuiti). La “queen of aggregation” appare agli osservatori del settore come una minaccia al giornalismo e ai giornalisti. In realtà già nei primi anni il sito opta sempre più per la produzione di contenuti propri e la crescita esponenziale del suo pubblico fa pensare piuttosto a una grande opportunità per il mondo dell’informazione. HuffPo diventa grande e – secondo un’efficace immagine proposta da Michael Meyer per la Columbia Journalism Review – cresce e matura nonostante il suo mix di argomenti ricordi i pensieri confusi di un quindicenne politicamente astuto. L’esperimento invalida la barriera tra i modelli tabloid e quality paper, facendo convivere una pluralità di toni e di tonalità. Rispetto a un quotidiano cartaceo di impostazione classica o alla sua versione digitale, la dose di soft news è molto maggiore. Inoltre HuffPost inventa nuove categorie dell’informazione: come esempio sono particolarmente interessanti il settore Divorce o quelli LatinVoices e BlackVoices dell’edizione USA. Nonostante i contenuti e le aree tematiche vengano riformulati sulla base del contesto di riferimento, lo schema generale rimane lo stesso in tutti i Paesi: è il “modello Huffington”.
Glocal
Nel 2008, durante la “Guardian News & Media’s internal Future of Journalism Conference”, Arianna Huffington annuncia : “Puntiamo ad essere un giornale che copra tutte le notizie, non solo un blog che si occupa di politica come ai nostri esordi”. Così comincia tre anni fa il radicamento a livello cittadino: nasce l’edizione di Chicago, seguono quella di New York, di Los Angeles, di Denver. Lo slogan “Use it!” e una combinazione di notizie di cronaca, agenda di spettacoli, informazioni di pubblica utilità declinano in edizione locale la varietà di temi tipica di HuffPo, quel suo mix fuori dai canoni, informale, prêt-à-lire. Il gusto per le celebrities, il gossip, e tutto ciò che in un quality paper tradizionale finirebbe nelle ultime pagine, non è una novità. Ma si traduce, e si rafforza, in una dimensione locale, dove il lettore può “consumare” il sito di informazione, “utilizzarlo” nella sua vita quotidiana. E l’espansione prosegue non solo in profondità ma anche in ampiezza: nel 2011 HuffPo dà vita a una nuova edizione nel continente americano (Canada, 26 maggio 2011) e punta verso l’Europa (Gran Bretagna, 6 luglio 2011). Una strategia su scala mondiale che trova il suo presupposto fondamentale nell’operazione Huffington – AOL. Lo dichiara la stessa Huffington: “Quando abbiamo annunciato la nostra fusione con AOL, ho detto che tra gli aspetti più stimolanti di questo progetto c’era la possibilità di raggiungere molto più rapidamente i nostri obiettivi – e tra questi includevo proprio il lancio di edizioni internazionali di Huff Post”.
Contaminazioni
Quando sbarca in Gran Bretagna, i commentatori si chiedono se l’Huffington Post condizionerà il Guardian più di quanto quest’ultimo contaminerà l’Huff Post: l’Inghilterra sul piano mediatico è stata in grado di rispondere in modo propositivo alle sollecitazioni che le nuove tecnologie offrono. Nel caso italiano Huffington deve ancora sbarcare, ma già contagia fortemente il panorama giornalistico. Un esempio è quello del Post di Luca Sofri. Fratello non riconosciuto dell’Huffington, ha preso dal suo parente americano almeno quattro elementi: il richiamo nel nome della testata, il ricorso ai blog, l’aggregazione di notizie e il ruolo chiave affidato ai social network. Tuttavia gli esiti non sono comparabili, gli utenti unici sono 28mila nel gennaio 2011 e il progetto, a detta dello stesso Sofri, rimane “elitario”. Diverso è il caso de Il Fatto Quotidiano.it, che Audiweb incorona a giugno come il portale news italiano più in crescita in termini di utenti unici. Anche se Peter Gomez, intervistato sulle relazioni tra HuffPo e l’edizione online del Fatto, ammette ironico che “un po’ abbiamo anche copiato”, è fondato pensare che il successo dell’operazione sia dovuto al fatto che siamo davanti non a una copia, ma a una sapiente traduzione. “Dell’Huffington abbiamo ripreso in qualche modo l’impostazione grafica e l’idea di creare una comunità di blogger”, racconta Gomez, “anche se i mezzi tecnici sono diversi e l’Huffington ha anche fatto il grande salto avviando Facebook Connect”. Non è l’unica differenza: il Fatto non dà spazio alle soft news, al gossip; riserva piuttosto etichette tematiche a “economia e lobby”, al precariato. Un esempio che suggerisce come la testata online italiana abbia utilizzato gli elementi vincenti del cugino statunitense, declinandoli però sulla base delle specificità del contesto e, soprattutto, dei propri obiettivi. Il Fatto si pone come un giornale di denuncia, in un contesto ritenuto poco plurale com’è quello italiano. E’ alla luce di questo quadro che va letto anche il ricorso ai blog (“per opinioni, questioni locali o per dire ciò che i giornali non raccontano”) e ai social network: “Una parte importante del nostro traffico arriva da Facebook, che permette al lettore di suggerire contenuti”, racconta Gomez. “In Italia l’incentivo a scambiarsi notizie di un certo tipo, che sono beni preziosi e non si trovano dappertutto, è più forte che in altri Paesi più liberi”.
Sociale e digitale
Se avere un impatto nel mondo è l’obiettivo dichiarato dell’Huffington Post, l’asso nella manica è proprio il social networking, ovvero l’interazione e la possibilità di fare rete tramite i social network ma anche attraverso i commenti agli articoli. Le microcomunità fluide e dinamiche che si formano attorno a un tema o una notizia sono fondamentali per il successo di HuffPo: nel caso di OffTheBus, esperienza di citizen journalism avviata con le presidenziali del 2008, così come nel giornalismo investigativo à la Huffington, la partecipazione dei lettori si realizza in un processo biunivoco. I lettori contribuiscono a fare la notizia (con un contributo diretto), a diffonderla (tramite i social network), a metabolizzarla (con i loro commenti). Una dinamica talmente preziosa che su di essa Huffington costruisce la propria strategia: l’esempio più lampante è la nascita nel 2009 di HuffPost Social News, frutto di un accordo con Facebook e basato su Facebook Connect, l’ultima evoluzione del sistema di Application Programming Interface. Dopo soli due mesi dal lancio della piattaforma, il traffico proveniente da Facebook verso HuffPo è cresciuto del 48 per cento e il volume di commenti è passato da 1.700.000 a 2.200.000; nel settembre 2009 i click provenienti da Facebook sono già il 500 per cento in più rispetto a gennaio dello stesso anno. Ciliegina sulla torta, nell’aprile 2010 HuffPo lancia i badges, spillette virtuali che indicano quanti fan e lettori si è riusciti a condurre sulla strada del portale. Un sistema premio-punizione (premio ai lettori più fedeli, punizione per chi posta commenti poco civili) che funziona come incentivo a condividere e fare community, oltre a costituire un meccanismo di fidelizzazione alla testata. Il passaparola è l’elemento chiave, perciò diventa cruciale incentivarlo e saper mobilitare l’onda anomala. Ma il ricorso al social networking è solo una delle strade percorse per sfruttare appieno il digitale.
Se creare e coltivare microcomunità permette di rivolgersi alla pluralità di minoranze e di sfruttare così la “coda lunga” teorizzata da Chris Anderson, un modello che ambisca a espandersi in tutto il mondo ha anche il forte interesse a indirizzarsi verso le preferenze di un pubblico ampio. Un esempio concreto di come ciò funzioni è dato dal sistema di titolazione di Huff Post: i caratteristici titoli a impatto devono prima passare una selezione democratica in tempo reale, secondo il sistema di marketing “A/B testing”; la versione del titolo che ottiene più click, più preferenze, prevale. E’ la strada dei vecchi media come la tv, è il criterio dello share, ma con nuovi mezzi. Saper intendere il proprio pubblico come un insieme variegato e plurale di pubblici rimane comunque uno dei maggiori punti di forza di Huffington Post, modello nato digital e cresciuto sfruttando le potenzialità del 2.0. Negli Stati Uniti come in Gran Bretagna, prestigiosi giornali stanno investendo le migliori energie per darsi un futuro nell’era digitale. Nel frattempo, l’Huffington ha già fatto lunghi passi nella direzione di un’economia dell’informazione di scala mondiale, con il vantaggio di sei anni di sperimentazione online di un nuovo modello.
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