Insegnare al pesce come camminare

30 Aprile 2013 • Digitale • by

“Teaching the fish how to walk: five things old media can learn from new media” è il titolo del keynote speech di Mathew Ingram al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia lo scorso 26 aprile (quì il video integrale).

Come al solito la sua chiarezza e semplicità nell’analizzare e spiegare i fenomeni che riguardano la transizione dal cartaceo al digitale, sono disarmanti. Ingram delinea cinque punti fondamentali attraverso i quali narra la storia dei nostri giorni, di quello che i media, giornalisti ed editori in primis, debbono e possono fare per non perdere l’appuntamento con i lettori: in primo luogo il riferimento ad un giornalismo aperto e partecipato (be more open); elencare e linkare sempre le fonti (give credit); come giornalisti, rivendicare la propria umanità che ci avvicina ai lettori (be human); individuare le notizie come un processo e non come un prodotto (news as a process); essere più verticali e definiti nell’indirizzare i lettori (be more focused).

Ma la possibilità di incontrarlo ci ha consentito di approfondire alcuni punti di sicuro interesse per i lettori di EJO.

Mathew, nel tuo “speech” di stamani hai indicato 5 punti fondamentali che debbono caratterizzare l’informazione “on-line”. Uno di questi è “essere umani”: puoi spiegarci cosa intendevi?

“Io penso che per i giornalisti è necessario recuperare la propria umanità  e, con questo, intendo varie cose. Una di queste, ad esempio, è, quando commettono un errore, di non dover apparire a tutti i costi perfetti o precisi al 100% . Un’altra implicazione è non pretendere di essere obiettivi sempre. Jay Rosen ha parlato di quella che lui ha definito “the view from nowhere”, che è l’idea, per i giornalisti di dover essere sempre scrupolosamente obiettivi (Rosen  utilizza questa definizione prendendola dall’omonimo titolo del libro del filosofo Thomas Nagel del 1989 che teorizzava la necessità, da parte  delle persone di trascendere dalle proprie angolazioni visuali, “posti specifici” immaginando invece di collocarsi in una visione oggettiva, senza angolazioni personali, collocata in nessun posto “nowhere” ndr).

Io penso che in molti casi i giornalisti offrono un servizio migliore ai propri lettori quando dicono “questo è quello che penso, la mia visione delle cose” . Così, quando sbagliano, dovrebbero poter dire “questo è quello che pensavo, ma alcune cose sono sbagliate (o giuste), e questo è il motivo per cui l’ ho detto”. Quando il giornalista si relaziona ad essi secondo una logica di umanità si genera un rapporto personale con i lettori e questo è un legame molto potente e, in ogni caso, quello che il giornalismo dovrebbe essere.”

E questo dovrebbe essere uno dei punti fondamentali di un “giornalismo aperto”, come hai detto stamani.  Ma come un giornalismo aperto si concilia con il fatto che gli editori stanno sempre di più mettendo i loro giornali dietro un “paywall”?

“Beh questa è una domanda difficile. Ho di recente avuto una lunga conversazione con Alan Rusbridger del Guardian sulla sua visione di “Open Journalism” ed in generale è emerso che vi è una sorta di tensione/opposizione tra il fatto di voler aprire il proprio giornale ai propri lettori ,  chiedendo loro di aiutarti a fare il tuo giornalismo e quello di avere un paywall che impedisce tutto questo. Si può cercare di raggiungere il maggior numero di persone intenzionate a pagare ma, evidentemente, sarà sempre un numero ristretto in confronto a quelli raggiungibili gratuitamente. Pertanto se vuoi la platea più ampia possibile per il tuo giornalismo, il maggiore livello di coinvolgimento del tuo pubblico, allora la cosa migliore è essere completamente aperti, senza alcun tipo di pagamento, come fanno la BBC o la National Public Radio (aziende pubbliche ndr). Ma è difficile per le aziende commerciali che debbono sostenersi tentare di coinvolgere i propri lettori senza avere entrate… non c’è una risposta unica.”

Uno dei problemi principali che hanno avuto gli editori nel passaggio dal cartaceo al digitale è stato di non comprenderne o sfruttarne le potenzialità. Sono adesso pronti e più flessibili? L’idea di un paywall come panacea per tutti i problemi sarebbe come tornare indietro…

“Credo che vi sia oggi un maggior interesse per i nuovi media digitali e questo perché il business degli editori è in difficoltà, stanno perdendo lettori ed anche i ricavi perché lo stesso mercato della pubblicità si è disgregato a causa di Internet. Molte aziende  stanno esplorando nuove possibilità e questo perché altrimenti chiuderebbero: devono raggiungere nuovi lettori e convincerli a supportarli in qualche modo o trovare nuovi modi per sostenersi attraverso la pubblicità. Mi piace immaginare che la scelta di molte aziende non sia solo quella di mettersi dietro un “paywall”, ma che questo possa essere parte di una più ampia strategia: non è sufficiente metter su un paywall e tornare al proprio lavoro di una volta.  Se questo può funzionare, in qualche modo, per il New York Times, non è detto che sia così per tutti. Per questo è importante capire che altro bisogna fare : il paywall può aggiungere dei ricavi  ma non può aumentare il numero dei lettori, come è invece necessario.  Bisogna quindi che gli editori si sforzino di essere sempre più creativi per raggiungere quest’obiettivo.”

Rispondendo alle tue domande al Paidcontent live,  Alan Rusbridger ha detto che non aveva senso far pagare i lettori quando le informazioni erano liberamente fruibili su BBC News, AOL o SkyNews…

“Io penso che testate come BBC, NPR e molte altre saranno sempre ad accesso gratuito e quindi, chi deciderà di dare le news a pagamento dovrà competere con esse  offrendo contenuti migliori. Io credo che sia questa la ragione per cui Guardian, Daily Mail ed altri editori hanno deciso di non far pagare i lettori: aziende come BBC hanno dimensioni enormi, con migliaia di giornalisti, con le quali è difficile competere. Chi decide di mettere un paywall deve essere sicuro di poter offrire contenuti davvero unici, tali da poter conquistare grandi quantità di lettori pronti a pagare pur avendo disponibili altrove le news gratuitamente.”

Il “Native advertising” sembra essere una possibile importante fonte di entrate per gli editori. Che problemi , anche etici, possono esservi per il giornalismo?

“Io penso che affinché il native advertising  funzioni correttamente o sia eticamente corretto è necessario che vi sia la massima trasparenza nel proporlo. È una questione che riguarda la fiducia dei lettori, del pubblico nel proprio giornale. Se si tenta di passare la pubblicità come contenuto editoriale i lettori se ne accorgeranno e smetteranno di avere fiducia nel giornale. I lettori vogliono sapere cosa è pubblicità e cosa è contenuto. E questo è anche più di un problema etico, è un problema che riguarda la relazione, il rapporto tra l’editore ed il lettore. Se il lettore perde la fiducia non tornerà mai più, che il contenuto sia gratuito o a pagamento. Per questo, come dicevo, è molto importante la chiarezza e la trasparenza nel far comprendere cosa è pubblicità e cosa no. Io credo che vi sia una grande potenzialità nel contenuto informativo che può venire dalla pubblicità, e quando questo sia utile per i lettori non vi è nulla di negativo, purché sia indicato chiaramente quando quel contenuto è fornito o sponsorizzato da un azienda.”

Come vedi lo sviluppo dei media europei: stanno seguendo il passo del cambiamento o sono rimasti indietro?

“In tutta onestà non ho studiato molto la situazione europea ma la mia sensazione è che siano rimasti indietro. E ti spiego perché. Non molto tempo fa alcune persone dicevano che in Germania i tutti i giornali andavano bene, ma adesso non è più così. Penso che in molti paesi come quello, a causa della barriera linguistica, vi è stato un isolamento, una protezione dal mercato globale ed inoltre vi erano meno giornali rispetto, ad esempio, agli Stati Uniti dove i giornali hanno dovuto e devono competere con qualsiasi fonte in lingua inglese di qualunque parte del mondo. Da un certo punto di vista, le barriere linguistiche li hanno protetti, nel breve periodo, da questa competizione, ma non è stato così nel lungo termine. Adesso che la competizione sta coinvolgendo i giornali di tutti i paesi del mondo, quelli che non hanno iniziato il proprio cambiamento cinque anni fa, sono in difficoltà, sono in ritardo.”

Mathew Ingram all'International Journalism Festival di Perugia

Mathew Ingram all’International Journalism Festival di Perugia

foto di Mathew Ingram, per gentile concessione di Alessio Jacona

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