Offshoreleaks: l’inchiesta è globale

15 Aprile 2013 • Digitale, Giornalismi • by

Un enorme flusso di dati scandagliati e portati allo scoperto, la cassa di risonanza dei media tradizionali: questi sono alcuni dei tratti in comune tra i Leaks più celebri, i Wikileaks, e la più imponente inchiesta internazionale sui paradisi fiscali, Offshoreleaks. Ma il lavoro reso pubblico il 4 aprile dal media network diretto da Gerard Ryle, The International Consortium of Investigative Journalists (Icij), rivela in maniera persino più potente quali conformazioni stia assumendo il giornalismo del futuro. La potenza non sta solo nei numeri, anche se comincia anche da qui. Infatti la matassa di dati analizzati è enorme (260 GB mentre i cablo di Assange corrispondevano a 1,64 GB), l’estensione è  mondiale (46 Stati), la rete di professionisti dell’informazione è fitta (sono 86 i giornalisti ingaggiati per Offshoreleaks) e inoltre sono quasi quaranta le testate di pregio coinvolte nel progetto (in Italia l’Espresso, in Francia Le Monde, negli Stati Uniti il Washington Post, in Gran Bretagna la BBC, per citarne alcune). Anche gli effetti dell’inchiesta appaiono potenti: la caratura dei personaggi finiti nella “rete” di Offshoreleaks, e soprattutto i loro legami con le dirigenze politiche e gli establishment dei vari Paesi, hanno contribuito ad alimentare la già notevole attenzione dedicata all’inchiesta dalle testate (tantopiù se direttamente coinvolte nel network). La copertura mediatica affidata alle rivelazioni di Icij sulla stampa generalista lascia anche intendere un meccanismo interessante e nuovo, anche se non inedito, di produzione e divulgazione della notizia. Appare dirompente la capacità di scatenare l’attenzione mondiale e di ottenere con perfetta sincronia una vera e propria cassa di risonanza fornita dalle testate più diffuse a una inchiesta prodotta al loro esterno (pur se con forti interconnessioni con molte delle stesse testate). Se fino a qualche tempo fa erano le singole redazioni il centro di ricerca e produzione dello “scoop”, adesso le stesse testate finiscono con il rincorrere, incapsulare e diffondere il lavoro ciclopico di analisi dei dati di una grande équipe internazionale.

GLI INVESTIGATIVE FUNDS

La esternalizzazione della produzione dell’inchiesta a centri internazionali no profit non è un fenomeno inedito, come vedremo. Ma Offshoreleaks ne dimostra per la prima volta appieno tutta la dimensione e la potenza, rivelando anche quanto la nuova conformazione di produzione dell’informazione abbia a che fare anche con la crisi del vecchio modello di produzione della notizia. Se il giornalismo investigativo appartiene alla professione da tradizione, è anche vero che sempre più frequentemente i giornali non investono in inchieste, tantopiù in ambiti come quello toccato da Offshoreleaks. Enorme la mole di lavoro, molteplici le professionalità e i professionisti coinvolti, esteso l’ambito, incerti i risultati nel breve periodo: insomma una inchiesta poco profittevole a meno di applicare anche nel giornalismo l’“economia di scala” partendo anche dalla dimensione globale dell’investigazione. La tendenza a rivitalizzare questo ramo del giornalismo dando vita a centri esterni rispetto alle testate d’origine, tenuti in vita con fondi privati, e che poi mettono a disposizione le inchieste a svariati media outlet, è ormai radicata negli Stati Uniti. Esperienze come quella prestigiosa di Propublica, quella di iwatchnews o dell’Huffington Post Investigative Fund sono degne di citazione. Nel caso Huffington, poi, fa riflettere che una testata proiettata nel futuro, il primo giornale globale per di più nativo digitale, affidi proprio al fondo no profit per l’investigazione l’obiettivo dichiarato di “salvare il giornalismo”. Negli Stati Uniti, dove la cooperazione tra giornalisti ha già decenni alle spalle (la prima associazione di editori e reporter  investigativi nasce in Arizona nel ’75),  attualmente i fondi no profit per il giornalismo investigativo sembrano avere il duplice scopo di salvare l’inchiesta dai confini di “riserva indiana” e di dispiegare tutte le potenzialità del linguaggio digitale in un contesto glocal. Questi fondi no profit, utilizzati anche per alimentare il prestigio delle testate con materiale di inchiesta, hanno l’aspetto positivo di salvaguardare il ruolo di “watchdog” dell’informazione, con tutte le ambiguità o i rischi insiti però nella presenza di grandi fondi privati (elargiti anche per avere esenzioni fiscali). Una zona d’ombra (quella di chi finanzia cosa e perché) che il Foglio vuol vedere nel caso Offshoreleaks, e una accusa (quella di investire tramite proprie società per produrre inchieste e al contempo esenzioni) rivolta qualche anno fa all’indirizzo di casa Huffington Fund.

DAGLI USA ALL’EUROPA

“Il giornalismo investigativo con regole di qualità e sovvenzioni da fondazioni pubbliche è certamente più diffuso negli Stati Uniti che in Europa o tantomeno in Italia”, racconta Leo Sisti, il giornalista italiano che fa parte del network Icij e che ha lavorato a Offshoreleaks in collaborazione con la testata italiana coinvolta nel progetto, l’Espresso. Il panorama di reti di giornalismo investigativo in Europa ha in effetti un’impronta diversa da quella statunitense. Gli esperimenti di aggregazione di professionisti di settore si strutturano già tra fine anni Ottanta e inizi Novanta (si vedano le esperienze cooperative danesi, svedesi, norvegesi e finlandesi). La rete si diffonde ed esce anche dalla scala europea per approdare a una dimensione associativa globale (si tiene nel 2001 in Danimarca la prima Global Investigative Conference). Tuttavia i fondi sono solitamente limitati e gli esperimenti rimangono a una scala più ridotta rispetto ai nuclei nati negli Stati Uniti. Per tanti versi, il caso Offshoreleaks può contribuire anche e proprio a diminuire il gap tra esperienze di tradizione (o velocità) diversa. Ciò riguarda anche i linguaggi, come pure la capacità di sfruttare al meglio le potenzialità del data journalism.“In Italia siamo indietro anche sul fronte del data journalism – ammette Sisti – mentre buona parte dell’Europa è più avanti, e ancor più lo sono gli Stati Uniti. Quella che da noi sarà la professione del futuro prossimo (il data journalist), negli Usa è già la professione di oggi. Al Seattle Times per esempio le ultime nuove assunzioni erano non a caso proprio di data journalists”. E allora una inchiesta internazionale sui paradisi fiscali, durata più di un anno, con 86 professionisti di tutto il mondo, è l’occasione per rilanciare in avanti le lancette del giornalismo. Per Italia ed Europa, è l’opportunità di confrontarsi con strutture di produzione e linguaggi ancora poco frequentati. Sisti ricorda che in Italia proprio quest’anno è nato il primo centro di giornalismo investigativo in Italia, Irpi. In attesa di veder crescere questa e altre esperienze made in Italy, già oggi grazie a Offshoreleaks possiamo apprezzare tutti gli effetti di una operazione maestosa che sta sedimentando nella cultura giornalistica globale i nuovi linguaggi comuni, il ruolo ormai indispensabile del data journalism e le nuove conformazioni nella produzione della notizia.

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