Weltwoche, N.20/2010
I giornalisti pigri e privi di senso critico sanno come uscirne: basta un’intervista.
Era un giorno come tanti altri. Micheline Calmy-Rey, in un’intervista al Blick, ha dichiarava che la Svizzera ha grossi problemi. Christophe Darbellay, parlando con il Tages-Anzeiger, diceva che il Partito Cristiano democratico svizzero (CVP) non ha alcun problema. Mentre Gerold Bührer, durante un colloquio con la NZZ, ammetteva che l’economia potrebbe avere qualche problema. Quel giorno era una domenica e ha confermato ciò che succede anche tutti gli altri giorni della settimana: i nostri giornali stanno diventando delle sale da te.
L’intervista è una calamità nazionale, che affligge la stampa in misura sempre maggiore. Fare un’intervista significa che un giornalista pone delle domande a un’altra persona. Le domande e le risposte vengono poi stampate e separate in grassetto o in corsivo.
Una calamità nazionale. In quella domenica fortuita, il Tages-Anzeiger ha pubblicato sette interviste (Darbellay, Marías, Guldimann, Ritzmann, Baumer, Stoffel, Forrer); l’Aargauer Zeitung ne ha pubblicate sei (Vögeli, Fischer, Seiler, Weber, Wölfli, Jakovljevic); sul Blick ne sono apparse quattro (Calmy-Rey, Lampart, Oesch, Thurnheer).
C’è un motivo ben preciso se, da qualche tempo a questa parte, l’intervista è così amata: è la forma di giornalismo con meno pretese. È nata con i media elettronici, dove aveva una ragione d’esistere: effettivamente, è più interessante avere al microfono un politico o l’allenatore di una squadra di calcio, piuttosto che leggere le loro dichiarazioni sulle pagine dei giornali. Anche nei settimanali è giustificata: ogni edizione dello Spiegel, ad esempio, contiene varie interviste importanti. I settimanali hanno più tempo per prepararsi sulla figura di un politico o di un allenatore e per trasformare quei colloqui prolissi in materiale di lettura interessante.
Ma poi l’intervista è diventata una calamità nazionale. Le redazioni dei quotidiani hanno scoperto che consente di produrre contenuti a prezzi ridotti: si fanno due chiacchiere, di persona oppure per telefono, si impaginano su due colonne, si aggiunge una foto e il gioco è fatto!
Una strategia evasiva per le tematiche più scottanti
L’intervista è il simbolo del giornalismo acritico; dunque, visto che quest’ultimo prospera, prosperano in uguale misura anche le interviste.
Questo genere svincola i professionisti dal lavoro di ricerca. Invece di andare alla scoperta dei fatti, chiacchierano. Invece di investigare sull’affare Swisscom, intervistano Carsten Schloter. Invece di indagare sul Partito Socialdemocratico (SP), intervistano Christian Levrat. Invece di studiare il caso della Banca Nazionale, intervistano Philipp Hildebrand.
La strategia evasiva viene adottata soprattutto con i temi più scottanti. A questo proposito, un ottimo esempio è rappresentato dalla cooperativa Migros: grazie alla pubblicità, è il maggiore finanziatore dei media. Non esiste redazione al mondo che vorrebbe far arrabbiare questo sponsor con una ricerca serrata. Dunque, si decide di virare sulla forma più soft dell’intervista. Pochi altri top-manager svizzeri ricevono tante proposte come il Presidente di Migros, Herbert Bolliger, che recentemente, ha rilasciato interviste all’Handelszeitung, al Sonntag, allo Schweizer Illustrierter e al Blick.
Nel frattempo, si sta diffondendo anche la pratica di condurre le interviste in forma scritta, in modo da evitare qualsiasi rischio. Nel caso delle interviste scritte, infatti, i consulenti PR dell’intervistato possono esercitare il diritto di censura su ogni singola frase. Questo ha poco a che fare con il giornalismo. Nella stampa anglosassone un modello di domanda-risposta simile non esiste. Per il New York Times, il Wall Street Journal e il Times questo dialogo diretto è troppo insignificante.
Da noi, invece, è entrata in vigore una nuova regola per la stampa: quante più interviste vengono pubblicate in un quotidiano, tanto meno professionale è una redazione. I calcoli potere farli da soli.
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