Corriere del Ticino, 07.05.2010
Parla Paul Steiger, icona del Wall Street Journal e ora direttore del sito online che ha vinto il Pulitzer
Sessantotto anni, giornalista della carta stampata da una vita, direttore del Wall Street Journal dal 1991 al 2007 (in questo periodo ben 16 Premi Pulitzer sono stati assegnati al quotidiano economico), Paul Steiger oggi è direttore di ProPublica, un’organizzazione no profit da lui fondata con sede a New York, che con un budget annuale di dieci milioni di dollari fa giornalismo d’inchiesta. Nella migliore tradizione americana: responsabile, approfondito, verificato e trasparente al servizio dei cittadini e dell’interesse pubblico. Non sulla carta però, come la tradizione imporrebbe, bensì sul web. Più precisamente sul sito www.propublica.org dove pubblica e condivide le sue inchieste giornalistiche con i lettori ma anche con gli altri media che possono riprenderle gratuitamente. Insomma una testata online e digitale figlia del suo tempo: fondata nel 2007, ha iniziato a pubblicare nel 2008 e nel 2010 vanta già un Premio Pulitzer – il primo mai dato ad un sito di informazione- per un’inchiesta sugli ospedali di New Orleans dopo l’uragano Katrina.
La ricetta vincente? Investire e credere nelle potenzialità del web, comprendere che il contesto digitale e le nuove tecnologie meglio soddisfano le richieste dei lettori, rinnovare le proprie redazioni e fare largo ai giovani (Pro-Publica si avvale della collaborazione di 40 giornalisti, 23 anni la giornalista più giovane, di 5.000 volontari e delle Università di giornalismo) collaborare con i media tradizionali. ProPublica crede profondamente nella condivisione dei propri contenuti e delle proprie inchieste con i giornali, le radio, le televisioni e gli altri siti web. Collabora infatti con la CNN, la NBC, il New York Times, il Washington Post, l’Huffington Post e molti altri. Per assicurare alle sue inchieste il miglior pubblico possibile. Segno che la carta stampata e i media tradizionali di qualità godono ancora di autorevolezza e credibilità, contano su un pubblico numeroso e interessato che li segue. Segno anche che, in un momento di difficoltà economica, una fondazione no profit come ProPublica può essere una valida risorsa dalla quale attingere in termini di contenuti di qualità, di risorse umane, di tempo e di modello al quale ispirarsi per il giornalismo del futuro. Sì, perché anche Steiger si dice convinto che c’è un domani per il giornalismo, in particolare quello investigativo, così come per i giornali. Di quale tipo di giornalismo e di futuro si tratta, alla luce naturalmente anche dell’esperienza di ProPublica e delle sue inchieste, lo abbiamo chiesto direttamente a lui in un’intervista durante il Festival del giornalismo di Perugia.
Si aspettava di vincere il Premio Pulitzer?
«A dire il vero no, è stata una sorpresa che mi ha riempito di gioia. D’altra parte ripensando alle inchieste svolte l’anno scorso, almeno cinque erano all’altezza del Pulitzer. Lo dico con cognizione di causa perché per nove anni ho fatto parte del consiglio direttivo del Pulitzer e so quali sono i criteri di valutazione e lo standard di qualità richiesto. E ProPublica, in collaborazione anche con giornali come il New York Times, produce questo tipo di inchieste. Il riconoscimento dunque è meritato ma è comunque stata una sorpresa».
Come è nata l’idea di ProPublica?
«È stato il prodotto di una serie di eventi. Nel 2006 quando ero ancora direttore del Wall Street Journal, i signori Sandler, con i quali ero in buona amicizia da tempo, vennero da me dicendomi che volevano mettere a disposizione dieci milioni di dollari per un progetto sul giornalismo investigativo e chiedendo il mio parere e consiglio. Li ho rincontrati all’inizio del 2007 presentando l’ossatura, il progetto di quello che sarebbe poi diventata ProPublica. I due coniugi rimasero entusiasti dell’idea».
Ha deciso così di lasciare il Wall Street Journal e passare ad un’esperienza tutta digitale?
«Nel 2007 ero già in età pensionabile. Il 31 dicembre 2007 era il mio ultimo giorno di lavoro al Wall Street Journal. Un lavoro che ho amato fino alla fine e pochi giorni dopo abbiamo dato vita a ProPublica».
Quando avete dato via al progetto quale era lo scopo da raggiungere?
«Creare un’organizzazione che usasse le tecniche giornalistiche per far luce sugli abusi di potere e sulle ingiustizie nel campo della politica, della sanità, delle amministrazioni e della giustizia».
Ci siete riusciti?
«Abbiamo fatto buoni progressi. Siamo avanti di un anno rispetto a quelle che erano le nostre previsioni, giornalisticamente parlando. Certo c’è ancora molto lavoro da fare: vogliamo migliorare la qualità giornalistica delle nostre inchieste per allargare la base del supporto finanziario così come implementare le nostre tecniche e i nostri strumenti digitali per migliorare la raccolta ma anche la distribuzione delle informazioni. Sono molto contento di dove siamo arrivati fin’ora».
Com’è strutturata ProPublica al suo interno?
«C’è un consiglio direttivo al quale fa capo Herb Sandler. Il consiglio non interagisce direttamente con i giornalisti e non è a conoscenza delle inchieste sulle quali lavoriamo. Ci sostiene e ci consiglia per la parte finanziaria e di innovazione tecnologica.
C’è un direttore, che sono io, un general manager – Richard Tofel – che di formazione è avvocato e ha esperienza nel campo delle pubbliche relazioni e del no profit. Un caporedattore – Stephen Engelberg – brillante giornalista ed ex redattore investigativo del New York Times. Sotto di lui ci sono quattro redattori senior che hanno il compito di seguire e consigliare nelle inchieste i circa 40 giornalisti che lavorano per ProPublica. Poi naturalmente ci sono una serie di figure responsabili per la distribuzione dei contenuti online, per la sezione dei blog, per le applicazioni mutlimediali, i social network e via dicendo».
Che cosa comporta fare un’inchiesta giornalistica?
«Dipende dal tipo di inchiesta. Quella che ha vinto il Pulitzer ha comportato viaggiare avanti e indietro più volte da New Orleans, fare centinaia di interviste, scartabellare un considerevole numero di documenti, girare gli ospedali in lungo e in largo per raccogliere informazioni. Ci sono altre inchieste che richiedono spostamenti più lontani, anche dall’altra parte del mondo».
In altre parole si tratta di fare del buon, sano e tradizionale giornalismo d’inchiesta con mezzi nuovi rispetto al passato?
«Sì, è proprio così. Non cambia la qualità dei contenuti ma il contenitore».
ProPublica si avvale della collaborazione di volontari e di scuole di giornalismo…
«Sì, per l’esattezza abbiamo 5.000 giovani volontari che collaborano con noi. Le scuole di giornalismo negli Stati Uniti non solo insegnano la materia ma hanno anche diverse pubblicazioni, sia sull’online che sulla stampa. E se tradizionalmente per loro era più difficile fare vero giornalismo – sebbene avessero numerosi collaboratori che producevano contenuti – per via della concorrenza di radio, tv e giornali che non avevano bisogno di loro, oggi sono avvenuti due importanti cambiamenti che cambiano la situazione: lo staff dei media tradizionali si è drasticamente rimpicciolito e il web ha portato molte più opportunità alla portata di tutti. In altre parole, secondo la mia esperienza, le scuole di giornalismo oggi offrono abilità professionali, professori esperti, know-how e studenti motivati e di talento. Allora perché non coinvolgerli?».
Ma anche dei media tradizionali?
«Si, come il New York Times o la CNN. Si tratta di una situazione di win-win e di profitto per entrambi: permette a ProPublica di raggiungere i lettori della carta stampata o della tv, quel tipo di audience insomma che non ha affinità con il web, oppure molto di nicchia e ai media tradizionali di attingere alle risorse e ai contenuti di qualità che offriamo gratuitamente sul sito».
Qual è la ricetta vincente per il giornalismo e per i giornali del futuro?
«Non ho una ricetta, purtroppo. Quello che so è che le tariffe pubblicitarie sono infinitamente più basse sul web che sulla stampa e che se il New York Times oggi pensasse di sopravvivere esclusivamente del suo sito tagliando i costi di produzione e di distribuzione perderebbe ancora più guadagni di quanto non fa oggi».
Che fare allora?
«Una strada possibile è senz’altro quella di far pagare di più gli utenti online. Il New York Times sta andando in questa direzione. D’altra parte se così si crea una certa circolazione di denaro non è certamente sufficiente a mantenere una testata. Un’altra strada potrebbe essere quella di avvalersi sempre di più della collaborazione di bloggers e citizen journalists qualificati».
Secondo lei tra dieci anni ci sarà ancora il giornalismo e ci saranno ancora i giornali?
«Penso che tra dieci anni ci sarà ancora il giornalismo e ci saranno ancora i giornali. Semplicemente saranno diversi. La tradizionale formula omnibus, il giornale supermarket non funziona più. Sull’online in futuro questa funzione la svolgerà Google. I giornali devono specializzarsi, fare un giornalismo di nicchia che proponga contenuti unici, di qualità e originali. Non usciranno ogni giorno, saranno sempre più specializzati, e si rivolgeranno sempre più ad un pubblico di nicchia».
Usa twitter e i social network in genere?
«No. Non uso twitter e non ho un profilo su facebook. Mia moglie che ha 25 anni meno di me ed è una fashion blogger mi dice sempre: “Se c’è qualcosa su facebook che valga la pena che tu sappia te lo dico”. ProPublica invece sì, usa i social network».