Corriere del Ticino, 21.01.2005
Parla Geneva Overholser ex ombudsman del Washington Post e tra gli ospiti del simposio dell’Osservatorio europeo di giornalismo cominciato oggi a Lugano
La stampa americana, e non solo, conosce una forte crisi di credibilità. Numerosi osservatori hanno ad esempio notato uno scarso mordente, da parte dei professionisti dell’informazione, nei confronti dell’Amministrazione Bush durante tutta la fase precedente l’ultimo conflitto con l’Iraq di Saddam Hussein, mentre alcuni eclatanti casi di giornalisti messi sotto accusa (ne abbiamo parlato nel primo piano del 14 gennaio) pongono seri interrogativi sulla reale libertà di stampa non solo in America. Abbiamo approfittato della presenza a Lugano di Geneva Overholser, ex ombudsman del Washington Post, per partecipare al simposio organizzato dall’Osservatorio europeo di giornalismo dell’Università della Svizzera italiana, per capire i problemi della stampa della democrazia più potente al mondo.
Durante la guerra in Irak, la stampa americana ha iniziato con grande ritardo a dubitare delle informazioni diffuse dalla Casa Bianca. Eppure i media di altri paesi del mondo avevano formulato tempestivamente forti e giustificate perplessità. Perché gli ombudsman americani – ovvero i garanti del lettore – non hanno reagito in tempo?
La diffusa mancanza di scetticismo dei media americani nei confronti della campagna dell’amministrazione Bush a favore della guerra in Iraq è stata sconvolgente. Credo che sia stata determinata da una complessa concomitanza di fattori. Innanzitutto, lo shock del terrorismo, un fenomeno che gli Stati Uniti, contrariamente ad altre nazioni, non conoscevano prima dell’11 settembre . In secondo luogo, una tendenza generale, in caso di crisi, a dipendere dalle istituzioni per raccogliere informazioni – e ancor di più in tempo di guerra. Questa non è però una prerogativa degli Stati Uniti: nel giornalismo di guerra questo fenomeno è comune a molte nazioni. Terzo, l’abilità senza precedenti dell’amministrazione Bush nella gestione dei messaggi e dell’informazione, abbinata alla capacità di mettere in soggezione molti media, accusati di essere di sinistra e faziosi. Da parte dei democratici c’è stata un’ opposizione fin troppo leale: hanno sollevato pochi interrogativi sul Patriot Act, come pure sull’esistenza delle armi di distruzione di massa. Dopo tutto, la stampa è frutto di un più ampio mix politico, non importa quanto ci piaccia credere nella sua indipendenza.
In che misura il patriottismo ha condizionato la stampa americana?
Non lo chiamerei patriottismo… Lo chiamerei una sorta di iper-patriottismo – un nazionalismo – mal posto sulle spalle dei giornalisti. Poco dopo l’11 settembre ero in onda con l’ex senatore Alan Simpson, che ad un certo punto mi ha puntato addosso il suo dito ossuto e ha detto, «Ora, infine, forse voi giornalisti la smetterete con il vostro terribile scetticismo». Gli ho risposto: «Senatore, lo scetticismo è patriottismo per noi giornalisti». E credo che sia proprio così. Ciò che è successo dopo il crollo delle Torri gemelle è stata una sconfitta del patriottismo di noi giornalisti. Abbiamo dimenticato di fare ciò che la democrazia ci richiede di fare: contrastare il potere politico.
L’industria pubblicitaria e quella delle pubbliche relazioni hanno un forte influsso sui media: hanno oltrepassato il limite?
Ciò che mi turba non sono tanto la pubblicità o le pubbliche relazioni, ma il livello di importanza al quale le agenzie governative (la Casa Bianca in particolare) pongono lo spin (ovvero le tecniche condizionare i media a loro insaputa, n.d.a.) e la gestione dei media – facendo in modo che l’accesso alle informazioni sia tanto controllato da rendere difficile un vero e proprio lavoro d’inchiesta su coloro che sono al potere. L’altro giorno stavo parlando con un corrispondente alla Casa Bianca che mi ha detto che le norme a cui devono sottostare i giornalisti di Washington hanno superato ogni limite. Credo che sia una diagnosi, per quanto sconvolgente, molto accurata.
Commenti il caso di Miller e Cooper – quello dei due giornalisti del New York Times e del Times che rischiano 18 mesi di prigione perché si rifiutano di rivelare il nome delle proprie fonti giornalistiche.
Sono molto preoccupata per il numero di giornalisti che oggi rischiano la prigione negli Stati Uniti, come pure per la mancanza di una più decisa protezione del segreto redazionale. Gli americani devono capire l’importanza di garantire la protezione delle fonti che forniscono informazioni ai giornalisti a rischio della propria incolumità, o addirittura della propria vita. Non dobbiamo diventare una nazione nella quale i giornalisti si trasformano in un semplice strumento di comunicazione del governo. D’altra parte, spero anche che questi drammatici casi ricordino ai giornalisti stessi l’importanza di evitare di garantire l’anonimità con tanta facilità come fanno ora. Si tratta di uno strumento necessario, ma del quale spesso si abusa.
A questo proposito, quando lei era ombudsman del Washington Post, ha spesso criticato pubblicamente l’uso delle fonti anonime da parte dei giornalisti. Con quali risultati?
La forte resistenza da parte dei giornalisti a rinunciare ad un troppo vasto uso delle fonti anonime è stata appunto una delle esperienze più dure per me al Washington Post. Quando ho criticato pubblicamente Bob Woodward – probabilmente il più noto giornalista americano, che provocò le dimissioni il presidente Nixon portando alla luce lo scandalo Watergate – ho avuto con lui conversazioni a tratti difficili. Abbiamo prospettive molto differenti a proposito di un uso troppo disinvolto delle fonti anonime: Woodward è un uomo a cui non piace essere messo in discussione. E devo ammettere che io stessa non sono sempre un interlocutore troppo gentile.
Per concludere, quanto è importante la figura dell’ombudsman per il giornalismo di qualità e quanto lo sono le discussioni tra esperti come quella promossa in questi giorni dall’Università della Svizzera italiana?
L’ombudsman ha un ruolo importantissimo: fornisce al lettore una chiave di lettura del lavoro giornalistico che un editore o un giornalista non potrebbe mai dargli. Per quanto riguarda il simposio, da queste conversazioni che consentono di raffrontare diverse esperienze nazionali esco sempre rinfrescata, ispirata e arricchita: sono onorata di partecipare a questo evento e di conoscere esperti che ho per lungo tempo ammirato – come Claude Jean Bertrand, Susanne Fengler, e tanti altri.
L’Ombudsman: chi è?
L’ombudsman – tipicamente un giornalista dalla lunga esperienza – è colui che per conto di un giornale riceve e valuta le lamentele dei lettori sull’accuratezza, l’imparzialità, l’equilibrio e il buon gusto delle notizie. Raccomanda rimedi appropriati o risponde per correggere o chiarire gli articoli contestati. Il suo ruolo è quello di migliorare la qualità dell’informazione: aiuta il fornitore di informazioni ad essere più accessibile e decifrabile dalla propria audience – e quindi ad essere più credibile. Aumenta inoltre la consapevolezza dei giornalisti a proposito delle preoccupazioni del proprio pubblico. La figura dell’ombudsman è relativamente recente: negli Stati Uniti il primo ombudsman è stato nominato nel giugno del 1967 a Louisville, Kentucky. Il concetto fu realizzato molto prima in Giappone, nel 1922: ora i News ombudsmen si trovano dappertutto in Nord e Sud America, Europa, e in parte del Medio Oriente e dell’Asia.
L’ombudsman aiuta a spiegare il processo della produzione delle notizie al pubblico – un’attività spesso misteriosa e, quindi, sospetta per molti lettori. Essi fungono inoltre da persona di contatto, superando la credenza comune che i media siano distaccati, arroganti o insensibili nei riguardi del pubblico e generalmente inaccessibili al cittadino medio. L’ombudsman può quindi essere visto come una della risposte della stampa alla generale crisi di fiducia nei media: sempre più spesso – anche alle nostre latitudini – gli errori giornalistici, le manipolazioni e la mancanza di etica professionale sono infatti oggetto di discussione. Persino diversi giornali di qualità, fino ad ora punti di riferimento, sono stati travolti in scandali più o meno gravi. A parte casi particolari, il fatto di avere o meno un ombudsman scaturisce da una decisione volontaria dell’editore. In generale si può affermare che negli Stati Uniti gli ombudsman sono numericamente più presenti che in Europa, il loro ruolo è meglio definito – ma soprattutto sono più visibili e accessibili al proprio pubblico. In Europa la situazione varia da nazione a nazione: in Italia e Germania ci sono esperienze non sistematiche, poco efficaci. In Svizzera negli ultimi anni sono nate molte iniziative in questo senso, soprattutto oltre Gottardo, ma la loro visibilità è ancora limitata.
Il convegno
Geneva Overholser è giunta da Washington per partecipare ad un simposio internazionale organizzato dall’Osservatorio europeo di giornalismo (EJO) dell’Università della Svizzera italiana. Tra oggi e domani arriveranno a Lugano una cinquantina fra giornalisti, ricercatori e professionisti del campo del giornalismo provenienti da tutta Europa e dagli Stati Uniti. Il workshop – Media Journalism in attention cycle: problems, perspectives, visions – è dedicato ad un tema di particolare rilevanza nel mondo dell’editoria: quello della critica dei media ad opera degli stessi giornalisti, in gergo il giornalismo sui media. Durante il convegno, che si svolgerà a porte chiuse, i 50 esperti avranno l’opportunità di esaminare le potenzialità e i limiti del giornalismo sui media, confrontando le esperienze negli Stati Uniti e in Europa.
La Giovanna d’Arco del giornalismo americano – di Stephan Russ-Mohl
Geneva Overholser è una giornalista coraggiosa. Nel 1989 fu una delle prime donne a diventare direttore di uno dei maggiori giornali americani, il Des Moines Register. Fece uno splendido lavoro, ma alcuni anni dopo diede le dimissioni protestando: i suoi capi – il management del più grande conglomerato di giornali degli Stati Uniti, Gannett – aveva spremuto anno dopo anno sempre maggiori profitti dai propri giornali, trascurando le necessità delle redazioni e la qualità giornalistica.
In seguito diventò l’ombudsman del Washington Post, uno dei due più prestigiosi quotidiani americani. In quanto ombudsman, aveva una rubrica settimanale nella quale discuteva le lamentele dei lettori, e i pro e i contro di alcune pratiche giornalistiche. Ancora una volta mostrò il proprio coraggio: in un articolo attaccò il più noto giornalista americano, Bob Woodward – l’uomo che portò alla luce lo scandalo Watergate e spinse il presidente Nixon a dare le dimissioni. Overholser spiegò che Woodward usava troppe fonti anonime e che i lettori del Washington Post avevano il diritto di sapere da dove venivano determinate informazioni. Alcuni dei suoi ammiratori, chiamano la Overholser la ‘Giovanna d’Arco’ del giornalismo americano.
Un paio di anni fa, si diede all’insegnamento diventando professoressa di giornalismo. Ora lavora nella sede di Washington della Missouri School of Journalism – una delle istituzioni di formazione giornalistica migliori al mondo. Attualmente, oltre a continuare il proprio lavoro giornalistico, sta scrivendo un libro su La stampa come istituzione della democrazia. La Overholser è sposata con un giornalista, e ha tre figli.