Corriere del Ticino, 28.01.2009
Lo sostiene l’amico Cervi che lo ricorda a 100 anni dalla nascita
I personaggi resi famosi dal loro genio, a volte imperscrutabili per la loro complessità e irraggiungibili per il successo ottenuto, rischiano di essere mitizzati. In realtà, anche i grandi non sarebbero tali senza la loro buona dose di umanità.
Che cosa fa di Montanelli uno dei più grandi giornalisti italiani del Novecento?
«Lui aveva la fortuna del suo talento straordinario, rarissimo nel giornalismo, e della sua testa. Inoltre la fortuna di essere toscano per cui lo scrivere bene in qualche modo gli veniva naturale; la sua lingua scritta era una derivazione molto raffinata della sua lingua parlata. La punteggiatura era una sua grande prerogativa, essa dava senso ai suoi pensieri. Non usava gli esclamativi e mai i puntini. E poi recitava i suoi articoli. Essi dovevano avere un certo ritmo, una certa cadenza. E lì era proprio il toscano che ha questo istinto della lingua. Poi aveva il suo estro, la sua capacità, il suo umorismo, direi anche quella sua ironia e autoironia che sono doti molto rare in Italia. E quindi aveva tutte le qualità per essere un grandissimo giornalista, anche quella di commuoversi all’occasione, se necessario. Per quanto riguarda specificamente il rifiuto alla nomina a senatore a vita, egli aveva sempre ritenuto che un giornalista se vuole essere indipendente non può avere un’affiliazione partitica precisa, ufficiale».
«Detto in termini semplici, Il Giornale è nato per rifare il Corriere della Sera. Montanelli, io e altri che ci seguirono, ritenevamo che Il Corriere della Sera di Piero Ottone avesse tradito la missione di essere il grande organo di informazione liberale della borghesia illuminata milanese e vi fosse bisogno di una valida alternativa in grado di esprimere quelle idealità. Abbiamo voluto dare voce a quella maggioranza silenziosa di italiani che non si riconoscevano più in questo organo di stampa. Montanelli voleva interpretare e interpretava una destra liberale di tipo risorgimentale. Lui era un liberale anarchico che ogni tanto aveva degli scatti di stranezza. Era un uomo senza pregiudizi e uno dei più tolleranti che io abbia mai conosciuto. L’immagine del toscanaccio che tutti conoscono è costruita. Ogni tanto si atteggiava ad esserlo perchè il suo ruolo richiedeva che lo facesse. Poi non aveva invidie. Semmai delle ostilità. Era talmente in alto che non aveva quelle piccinerie di chi teme che un giovane possa rubargli il posto o la poltrona. Anzi, era prodigo di consigli e di aperture ai giovani. Tollerante e generoso nei giudizi umani, era severissimo in quelli professionali. Soprattutto aveva un fiuto infallibile per gli articoli e i libri in genere: dopo tre righe sapeva riconoscere se un articolo era buono o meno. Anche i giovani li capiva al volo. Poi però era anche un uomo di mondo. Un giorno mi fece una battuta bellissima: un caro collega ci aveva dato un libro poco consistente. L’avevo sulla scrivania e quando Montanelli entrò nel mio ufficio gli dissi “Indro cosa facciamo di questo libro?” . Lui aggrottò la fronte, ci pensò su e rispose: “Questo libro non vale niente: se ne può parlare anche bene”. Con i collaboratori si andava spesso a mangiare in Trattoria da Elio. É lì che è nata la nostra collaborazione, prima per il volume “L’Italia e Littoria” e poi per i 13 volumi della storia d’Italia».
«Sì. Montanelli era davvero così indipendente. Quando Berlusconi divenne il maggiore azionista del Giornale, dunque il proprietario, lui gli disse più o meno questo: “Finchè non sei in politica, sei il mio editore, per altro quello che preferisco perchè mi lasci libero, non ci sono problemi. Ma dal momento che entri in politica, se io parlo bene di te sono un servo, se parlo male sono un ingrato. E quindi sarei condizionato».
«Il lettore di Montanelli era un lettore moderato. Un patriota, uno che crede nei valori tradizionali, uno che ha senso dello Stato, che ha civismo e che al tempo stesso possiede un certo senso dell’ironia, senza prendersi troppo sul serio. Questo era il ritratto del lettore di Montanelli. Poi lui aveva la capacità di lisciare il pelo al lettore fingendo di andare contro, cioè di dire delle sventatezze che però sapeva che piacevano. Il suo controcorrente a volte ce lo rimproveravano perché troppo osè, ma lui sapeva che in fondo piaceva anche ai lettori bacchettoni».
«Qualche volta, quando scriveva, aveva questi atteggiamenti un po’ donchisciotteschi, perché in fondo lui era un vincente, della professione soprattutto. La tristezza grande è arrivata verso la fine quando ormai aveva perso fiducia nel Paese e nella possibilità di riabilitarlo. Teneva molto ai giovani, ma aveva l’impressione che in questa Italia non potessero riscattarsi.
«Naturalmente l’emozione. Allora noi facevamo i commenti a Telemontecarlo. Arrivai alla sede del Giornale in piazza Cavour e Iside Frigerio, la sua segretaria, mi disse “Hanno sparato a Montanelli” e aggiunse “Bisogna che tu vada subito a registrare a Telemontecarlo e darne un commento”. Il succo fu: “Ci risparmino adesso i piagnistei di quelli stessi che hanno indicato Montanelli come fascista, reazionario e nemico del popolo e che lo hanno additato al mirino di questi pazzi”».
«È stata per lui una rottura molto amara. Penso che abbia sbagliato a non tornare subito al Corriere della Sera e a voler fare la Voce che è stata un’esperienza assolutamente fallimentare. Lui capiva che c’erano stati degli eccessi anche da parte sua, e per orgoglio, anzichè attenuare rinfocolava la polemica con il Giornale e con Silvio Berlusconi. Accadde che tanti montanelliani convintissimi si arrabbiarono e si allontanarono da lui, anche se poi con grande piacere ho potuto constatare che dopo la sua morte c’è stata una sorta di riconciliazione con i suoi lettori. Hanno compreso che era un punto di riferimento di straordinaria importanza. Quante volte in redazione ci capita di dire “Chissà cosa avrebbe detto o pensato Montanelli? Invece non c’è più.”»
«Sicuramente il giornalismo di Montanelli è finito. La nostra idea, di cui spesso discutevamo era un po’ questa: il giornalismo – parlo di quello della carta stampata – sta tornando ad una situazione ottocentesca, quando la massa della popolazione era analfabeta e solo una minoranza alfabetizzata discuteva, leggeva libri, polemizzava. Ora ci troviamo in una situazione analoga, in cui la maggioranza della popolazione è analfabeta nel senso che il suo unico alimento di informazione e di cultura è la televisione. E c’è una minoranza alfabetizzata che invece continua a leggere quotidiani, libri. Non amava le nuove tecnologie e fino alla fine i suoi pezzi li scriveva sulla sua macchina da scrivere, lettera 22».
«Forse sono un po’ egoista perché l’abbiamo scritta insieme, ma credo che “La storia d’Italia” sia proprio un ritratto, in sostanza un modello di giornalismo».
«Io non credo come lui raccontava, che Hitler si fosse fermato a parlare con lui. Però era un’invenzione che non alterava in niente la realtà dei fatti. Lui era molto onesto nei fatti essenziali. Anche quelli della sua vita. Poi non era uno a cui piaceva atteggiarsi ad eroe. Non l’ho mai visto fare qualcosa di meschino. Mai. Poteva essere in qualche momento un pò goliardico e fantasioso. Ma in senso buono e non sui fatti essenziali. Era un essere umano di grandissima levatura e spessore. Anche nei rapporti personali era indulgente e bonario. Aveva il senso della idalghia spagnola».
«Forse sì perché gli sarebbe piaciuto questo giovane con quest’aria di speranza che parla in modo chiaro e diretto. Lui non soffriva i politici che avvolgevano tutto nelle formule criptiche».
«La sua compagnia e la sua amicizia. Il nostro sederci insieme qui in ufficio a guardare l’ispettore Derrick».
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