Il Cavaliere senza impero e Prodi il berlusconiano

17 Marzo 2006 • Giornalismi • by

Il Corriere del Ticino, 17.3.2006

Luoghi comuni da capovolgere e sorprese della battaglia comunicativa per le politiche del 9 aprile. Uno ha ballato, cantato, regalato orologi, raccontato barzellette, parlato di calcio, sesso e ricordi passati a tutte le ore del giorno e della notte. L’altro è rimasto nel silenzio di Bologna, dopo aver girato l’Italia a bordo di un tir giallo, rifuggendo fino all’ultimo momento utile ogni tipo di confronto televisivo.

Sono campagne comunicative differenti quelle di Silvio Berlusconi e di Romano Prodi, popolate da polemiche costruite ad arte, mosse tattiche, qualche colpo basso e due stereotipi che occorre capovolgere: da una parte lo sbandierato strapotere mediatico del Presidente del Consiglio; dall’altra la conclamata diffidenza del Professore nei confronti della comunicazione e della sua arte. Affrontando l’analisi di questa campagna elettorale da un punto di vista puramente comunicativo, senza lasciarsi tirare nel gioco politico delle parti e dei loro interessi, emergono infatti due dati in controtendenza: il potere di Berlusconi di influenzare televisioni e giornali non è così forte ed allarmante; Prodi, come emerso chiaramente dal duello televisivo, è in grado di surclassare il Cavaliere sul suo stesso terreno, ovvero quello del marketing politico.Il Cavaliere senza impero
Da tempo, al bar e per strada, così come sulla bocca di tutti gli esponenti del centrosinistra, aleggia l’argomento dello strapotere mediatico del Presidente del Consiglio, manifestatosi in modo eclatante nel corso nei primi mesi di campagna elettorale. Vero è che ogni giorno, dagli inizi di gennaio fino a metà febbraio, «super Silvio» è stata una presenza costante a tutte le ore del giorno e della notte, senza distinzione tra emittenti pubbliche o private, radio, televisioni, quotidiani, settimanali e varietà. Per quasi due mesi, a molti è sembrato che il giornalismo politico italiano si fosse fossilizzato solo su due criteri di notiziabilità, uno riguardante la persona di Silvio Berlusconi, altro riguardante le critiche alla persona di Silvio Berlusconi, che tradotto significa un solo protagonista: Silvio Berlusconi. Tutta l’Unione ha gridato all’ennesimo scandalo, al nuovo «colpo di stato televisivo», all’«illegale monopolio imperiale dell’informazione» esercitato senza alcuna remora dal Cavaliere. Ma sono veramente fondate queste critiche? Silvio ha davvero così tanto potere ed il giornalismo italiano è veramente imbavagliato a tal punto da subire supino le volontà del «re di Arcore»? La risposta, contrariamente agli stereotipi elettorali ed a quelli del bar, è no. No per diverse ragioni «di sistema», che hanno a che fare non tanto con le proprietà del Presidente del Consiglio, quanto piuttosto con la cultura e la dinamica dell’informazione italiana nel suo complesso. Nonostante quello che si affannino ad accusare i suoi avversari politici, Berlusconi non dispone di un impero di giornalisti sudditi condiscendenti particolarmente vasto ed il giornalismo del Bel Paese non è affatto monopolizzato come qualcuno strumentalmente cerca di sostenere. Questa tesi, benché fuori moda, è avvalorata da diversi elementi che è bene prendere in considerazione, per comprendere realisticamente e in modo non ideologico il senso dell’ultima battaglia mediatico/elettorale del Presidente Berlusconi.

Innanzitutto bisogna ricordare la nascita «politica» di molti degli attuali quotidiani italiani, legati in origine direttamente ai partiti, fatto che ha lasciato nella cultura di fondo del fare giornalismo tracce indelebili di partigianeria, che rendono ora assolutamente naturale il fatto di schierarsi o di lasciare spazio all’amico di turno, in questo caso – e solo in questo – all’amico Silvio. È necessario poi fotografare il panorama economico dell’informazione italiana, caratterizzato dal fenomeno dell’ «editoria impura»: impura perché strutturalmente legata ad interessi imprenditoriali superiori a quelli puramente giornalistici, che vedono grandi gruppi occuparsi in prima istanza di banche, automobili, cemento e solo in seconda battuta di informazione, considerando le proprie redazioni non come sistemi autonomi ed indipendenti, ma come importanti armi simboliche finalizzate al raggiungimento degli obiettivi del proprio gruppo. Questa dipendenza congenita e storica del giornalismo italiano rispetto a potenti reti di interessi economici e politici è quindi una buona ragione per giudicare relativamente «normali» le improvvisate mediatiche del Presidente del Consiglio, non tanto dovute ad un suo potere personale, al suo impero televisivo ed editoriale, quanto piuttosto alla cultura stessa del giornalismo a sud delle alpi, da sempre legato ad una ragnatela di interessi incrociati che si tengono la mano l’uno con l’altro, pronti all’evenienza ad aiutarsi reciprocamente, scambiando un favore con un passaggio in televisione o una pagina di quotidiano.

Abbracciando questa prospettiva, da un lato la raffica di comparse televisive di Silvio non risulta particolarmente grave od allarmante, in quanto congenita al sistema italiano di relazione tra la politica e l’informazione ed emblematica di un certo modo di concepire la comunicazione politica; dall’altra è possibile anche interpretare più agevolmente la mossa di «endorsment» effettuata dal Corriere della Sera, che schierandosi dichiaratamente con Prodi, ha semplicemente indossato la casacca di un’altra squadra, di un’altra rete di potere, negando oltretutto con questo un ulteriore argomento a chi ancora sostiene che Berlusconi controlli i punti nevralgici del sistema dell’informazione italiano.

Prodi il berlusconiano
Sempre in tema di stereotipi da capovolgere, nel corso del duello televisivo di martedì sera tra i due candidati premier c’è stata una rivelazione: «mortadella», l’impacciato «parroco tropo professore» schernito da tutta la Casa delle libertà per le sue scarse doti espressive, ha rubato la scena al grande comunicatore. Contrariamente a tutte le aspettative, sedici milioni di italiani hanno assistito ad un mach evidentemente a senso unico. I pochi che ancora sostengono che Berlusconi ne sia uscito quantomeno indenne tentano disperatamente di reggergli il gioco, nella speranza di sostenere la tirata finale attivando con un po’ d’entusiasmo le ancora folte fila degli indecisi. Tuttavia, tattiche a parte, è difficile sostenere il contrario: davanti alle telecamere di Rai Uno, il professore è parso a suo agio e sereno almeno quanto il Cavaliere è sembrato insofferente e nervoso. La prodezza comunicativa dal capo dell’opposizione gli ha permesso di districarsi amabilmente tra le tante contraddizioni che caratterizzano la compagine dell’Unione, restituendo una immagine di solidità e sicurezza, che pur non avendo molto a che fare con la realtà, di certo ha colpito nel segno, grazie ad una retorica asciutta e chiara, al rispetto naturale e certosino dei tempi di risposta. Berlusconi, il cui pesante cerone suggeriva un’idea di costruito tutto fuorché spontanea, ha scarabocchiato tutta la sera sul foglio davanti a se, sforando i tempi e senza guardare quasi mai «in camera», cioè direttamente in casa degli italiani. Tecnicismi a parte, pur importanti, la vittoria inequivocabile di Prodi è di ben altra portata ed ha a che fare con il messaggio complessivo che i due leader sono riusciti a far passare: l’attuale capo del governo si è avvitato su se stesso in un circolo vizioso e freddo fatto di numeri dei traguardi raggiunti, «demonizzando» i precedenti governi in una prospettiva più che altro rivolta al passato. Il professore gli ha letteralmente rubato il ruolo e la scena, lanciandosi con disinvoltura in una operazione ben riuscita di marketing politico, regalando al pubblico una sensazione di speranza e di cambiamento positivo, tirando in ballo parole molto berlusconiane quali «speranza», «felicità», «futuro», che coronate dalla sua cravatta azzurro celeste, sarebbero tranquillamente potute uscire da uno spot di Forza Italia. Se questa mossa servirà a rubare clienti-elettori lo si capirà solo il nove aprile. Per ora, tra alti e bassi, agli indecisi è dato di scegliere tra prodotti sempre più simili. Senza sconti per nessuno.