Un’immagine dominante ormai sorpassata

12 Aprile 2004 • Giornalismi • by

Message, Nr. 2, aprile 2004

Secondo i giornalisti italiani, la corrispondenza di guerra dei media americani rientra in una tendenza globale: l’«italianizzazione» del giornalismo.

La rivista specializzata italiana Problemi dell’informazione (Pdi) ha dedicato molta attenzione, e a più riprese, alla corrispondenza americana sulla guerra in Iraq; per concludere questo ciclo, riprendendo un’iniziativa della Columbia Journalism Review, ha dedicato un numero speciale alla revisione delle norme di oggettività. Ecco alcuni risultati.

Considerando la realtà del giornalismo italiano non è sorprendente che i critici dei media italiani ritengano l’oggettività una chimera: «In realtà, non è possibile parlare di obiettività del giornalismo con obiettività» dice, scuotendo le spalle, il giornalista Luca De Biase, che scrive per Panorama e Il Sole 24 Ore, e che insegna presso le università di Milano e Padova. L’oggettività sarebbe «solo uno dei valori che possono definire il giornalismo». Ogni giorno c’è la dimostrazione che il giornalismo è fatto anche «di emozioni, di pressioni politiche, di buono e di cattivo gusto, di esigenze commerciali e di molto altro». (Pdi 4/2003)

Anche Carlo Sorrentino, studioso delle comunicazioni all’università di Firenze, parla dell’«ideologia dell’oggettività», che dovrebbe essere superata da un «concetto costruttivista» dell’oggettività giornalistica. Ritiene bizzarro che «per decenni» si sia potuto affermare «che il giornalismo italiano si sarebbe dovuto adeguare a quello degli altri paesi, superare i suoi eccessi di politicizzazione ed elitismo» per trasmettere un’immagine autentica della realtà sociale.

Sorrentino lo ritiene strano, e ora succede proprio il contrario: nei paesi più sviluppati si può osservare un’«italianizzazione» del giornalismo, nella quale in passato «vennero definiti i processi organizzativi e gli stili espositivi del giornalismo moderno». (Pdi 4/2003)

Per quanto riguarda le prospettive per l’oggettività, oggi il giornalismo è più vulnerabile anche per motivi economici: mentre alcuni critici dei media vedono, grazie all’aumento delle edizioni e degli indici di ascolto, i media come vincitori della guerra, Fabio Amodeo, giornalista e docente all’università di Milano, pone l’accento sul fatto che la guerra è costata al sistema dei media «un sacco di soldi». In un periodo di stagnazione economica e di crisi, i «pesi massimi» delle imprese mediali sono stati messi a dura prova. La guerra stessa avrebbe provocato ulteriori diminuzioni di annunci e pubblicità. Mantenere o «infiltrare» i reporter a Bagdad o Kuwait City era tanto costoso che giornali minori non avevano avuto nessuna possibilità di «partecipare al gioco». E per i giornalisti free-lance esisteva comunque una sola possibile postazione: a Nord, dietro le linee curde.

L’industria dei media, che negli ultimi anni ha perso molti soldi avventurandosi nella New Economy, con fusioni e acquisizioni, sarebbe economicamente «fragile». Le mancherebbero quei cuscinetti finanziari, risultanti da un bilancio in salute, che, per molto tempo, sono stati alla base del loro giudizio indipendente. Nell’attuale congiuntura nessuno si è potuto permettere, come ad esempio a causa dell’accusa di «comportamento non patriottico», di perdere pubblico o inserzionisti. (Pdi 2/2003)

Fabrizio Tonello, che insegna demoscopia e scienze della comunicazione presso le università di Padova e di Bologna, ricorda ancora una volta la verità sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein che si poteva scoprire «dietro i feuilletons»: tali armi sarebbero «effettivamente esistite» e sarebbero state anche «realmente usate», vale a dire nel 1988 contro i curdi e contro l’Iran col consenso da parte degli USA e della Gran Bretagna. Dopodiché, durante la guerra del Golfo nel 1990/1991, le armi chimiche restanti non sarebbero state utilizzate dal governo Saddam e sarebbero state distrutte in seguito ad un’ispezione da parte dell’ONU. Negli anni 2002 e 2003 i governi di Washington e di Londra avrebbero poi riempito i mass media di «propaganda costruita su un criminale», «di cui per tutti gli anni ottanta erano stati complici». (Pdi 2/2003)

Maurizio Ricci, corrispondente di Repubblica, si è occupato dei risultati delle inchieste svolte in USA sulla guerra del Golfo. Esse sarebbero state riproposte dai media «costantemente distorte», poiché la maggioranza degli americani non avrebbe per nulla approvato l’azione solitaria di Bush. Un’approvazione alla guerra ci sarebbe stata soltanto per un procedimento da parte della comunità internazionale, su mandato dell’ONU. Ricci riconduce ciò al framing dei media e si rifà ai comunicazionisti Katherine Hall Jamieson e Paul Waldman – che nel loro libro The Press Effect hanno descritto come delle «cornici» predefinite possano indirizzare la percezione selettiva dei giornalisti nell’elaborazione del flusso notiziario. (Pdi 1/2003)

Traduzione: Mirjam Schmid