Dai tempi dei discorsi del caminetto di Roosevelt, per arrivare ai cinguettii su twitter di Obama, la campagna elettorale d’America segna il passo delle tendenze mediatiche di tutto il mondo, anticipandone i pregi e le degenerazioni. Qualche esempio. La campagna vincente di Obama del 2008 ha percorso per prima con convinzione la strada dei social media, una via che ormai tutti i candidati non solo d’America sono costretti giocoforza a ripercorrere. Già prima, nel 2004, il candidato democratico Howard Dean aveva inaugurato la prima campagna elettorale “web oriented”, utilizzando internet come mezzo efficace per organizzare i supporter e raccogliere le donazioni. Grazie allo stratega della comunicazione Joe Trippi e all’uso intelligente del web come piattaforma, Dean era riuscito a moltiplicare i propri sostenitori da poco più di 400 a 640mila, mentre il conto in banca si era arricchito dai 100mila dollari di inizio corsa ai 50 milioni di dollari sul finale di campagna. Una rivoluzione mediatica che fa il paio con quelle che nel dopoguerra, anzi ancor prima, avevano sdoganato i mezzi di comunicazione di massa come arma di consenso.
Ha fatto storia l’uso sapiente della radio di Roosevelt, cosi come il primo dibattito televisivo presidenziale con Kennedy, per non parlare dell’uso relativamente recente del marketing per carpire il consenso dei potenziali elettori, o del ricorso a mezzi di comunicazione capillari come l’uso dei telefoni verdi. Il braccio di ferro in corso tra i due candidati alla Presidenza, l’incumbent democratico Barack Obama e il repubblicano Mitt Romney, conferma senza grandi strappi o innovazioni le linee di tendenza mediatiche già in corso da anni, ma – e questa è una novità – finisce per condurle alle conseguenze più estreme.
MEDIA BOSSES
Dal potere mediatico allo sgambetto a colpi di media, il passo è breve. Non a caso si assottiglia sempre più la distanza che separa i “media bosses” – espressione con cui già negli anni Ottanta l’autorevole politologo Polsby segnalava lo slittamento di potere in corso dalle strutture partitiche verso quelle mediatiche – dalle “media gaffes” come quelle recenti di Mitt Romney. Le armi dello scontro politico stanno nella comunicazione, nel bene (a colpi di sondaggi) o nel male (a suon di gaffe). Perciò non si può prescindere da alcuni tratti distintivi del contesto statunitense. La sinergia tra finanziamenti privati e potere di tipo mediatico è uno dei tratti determinanti, e si coniuga inoltre con la personalizzazione della campagna mediatica, sempre più incentrata sul candidato piuttosto che sulla organizzazione politica di provenienza. Personalizzazione, denaro e media vanno a braccetto non per caso, ma anche per la fisionomia che le istituzioni statunitensi hanno attribuito alla corsa per il potere. Un esempio senza precedenti è quello della moltiplicazione e della sregolatezza dei Political Action Committees, i comitati di azione politica. Da quando nel 1976 la Corte Suprema ha associato il diritto a sostenere economicamente un candidato al pari del diritto di libertà di parola, il finanziamento ai candidati (a discapito del finanziamento ai partiti) è lievitato nel tempo. Con la sentenza Buckley vs Valeo, la giurisprudenza ha di fatto incentivato la illimitatezza dei fondi per campagne tematiche o per le spese dei singoli candidati. E se i Political Action Committees proliferano accrescendo i propri fondi e il proprio potere, anche la campagna mediatica ne risente. Un esempio? La storia dei due Joe, l’idraulico e il metallurgico.
MEDIA GAFFES
Siamo nel 2008 e un uomo come tanti si avvicina al candidato democratico Obama durante un comizio. Il tempo di intercettare le telecamere e di lanciargli una domanda sferzante sull’aumento delle tasse, e da allora Joe Wurzelbacher diventa “Joe l’idraulico”, simbolo della campagna repubblicana, oggi commentatore radiofonico in corsa per il Congresso. “I politici giocano con le nostre vite e io mi sono stufato di tutto questo”, ha dichiarato Joe the Plumber quando poco tempo fa ha annunciato la sua discesa in campo, rinvigorendo il proprio simbolo di uomo comune che diventa caso mediatico e quindi politico. E se già nel 2008 i media americani avevano fatto le pulci a Joe scoprendo in lui un evasore fiscale, la parabola per eccellenza dell’uomo comune che diventa caso mediatico per poi rivelarsi una bufala risale a questa campagna presidenziale tuttora in corso. E’ proprio grazie a un PAC, a un Political Action Committee, e alla sua struttura mediatica, Priorities Usa, che fa la sua comparsa un altro Joe, stavolta in campo democratico. Il comitato elettorale pro Obama finanzia e trasmette il video di Joe il metallurgico, che con tono dimesso, maglioncino grigio e una tazza di caffè davanti, confida a tutta la nazione di come Romney imprenditore gli abbia rovinato la vita: lo ha licenziato da un’azienda, lo ha ridotto in povertà e con assistenza sanitaria scarsa, finché poi la moglie non si è ammalata di cancro e questo Joe, il metallurgico, non ha potuto garantirle l’assistenza che meritava. Un episodio e un video che diventano presto caso mediatico, assumendo una risonanza mondiale: anche in Italia la stampa parla del nuovo Joe. Ma come i media creano, i media distruggono: la stampa si mette in moto per verificare la storia e la televisione Cnn scopre che tanti pezzetti del puzzle non tornano. Un vero boomerang per lo staff di Obama, che non a caso prende le distanze dallo spot di Priorities. Ma la catena di gaffes continua, e dopo aver sfiorato Obama ad agosto, travolge come una valanga Romney in questo mese di settembre.
NIENTE DI NUOVO?
Non è bastata la tendenza che da decenni vede l’incumbent per favorito. Neppure l’uso migliore e più frequente dei social media da parte di Obama (si veda la ricerca del Pew Research Center) aveva disarcionato Mitt Romney nel duello con il Presidente uscente. Ma quando le notizie delle sue gaffes hanno iniziato a susseguirsi, fino a non costituire nemmeno più una novità, il tono del confronto è decisamente cambiato. La stampa e i siti online anche in Europa hanno riservato un ampio spazio alla gaffe più seria, quella immortalata in un video rubato e poi rilanciata sul sito Mother Jones, in cui Romney ammette esplicitamente di volersi occupare solo di una parte degli americani. Un Oppo Team, un gruppo di “setacciatori” di frasi e video compromettenti, con il contributo determinante del nipote del Presidente Carter, ha intercettato il video imbarazzante e ha incastrato – mediaticamente – il repubblicano. Anche perché, se la notizia di per sé fa scalpore, d’altra parte si aggiunge a una serie di gaffes precedenti: questa è “solo l’ultima”, come nota in Italia il Corriere. I problemi con il fisco smascherati dal sito Gawker e rilanciati alla stampa anche internazionale, le frasi “poco diplomatiche” sui palestinesi rubate con il video, il comizio nel locale di un narcotrafficante sono solo alcuni anelli di una catena di passi falsi che rischia di allungarsi, scovata e amplificata dai media di tutto il mondo. E a giudicare dai più recenti sondaggi, ironia del destino mediatico, le strategie di Romney per puntare alle fasce di indecisi si stanno rivelando di fatto un’arma per consegnare il loro consenso nelle mani dell’avversario: Obama ora sorpassa il repubblicano con 8 punti percentuali di vantaggio. Una vera rovina che pare annunciare la sconfitta, scrive la stampa nei titoli di tutte le lingue: “Romney arruina su campana” (El Pais), “Les gaffes de Mitt Romney menacent sa campagne” (Le Monde), “Romney over 47 per cent gaffe” (The Times), e così via. Un passo falso secondo molti, e sicuramente secondo i sostenitori di Obama. Non a caso a insistere sull’episodio c’è Priorities Usa, il PAC pro Obama. I media creano e i media distruggono, niente di nuovo allora in questa campagna elettorale. Fino alla prossima puntata.