Corriere del Ticino, 17.05.2011
Un web documentario su Haiti, un nuovo modo di raccontare le catastrofi
Quando accade un fatto inaspettato, drammatico come il recente terremoto in Giappone, l’attenzione dei principali media di tutto il mondo per giorni si concentra principalmente su quello. Con un’informazione a tappeto, aggiornamenti e rilanci continui delle notizie si ha come l’impressione che quella riportata dai media sia l’unica realtà esistente o comunque l’unica della quale valga la pena dare conto. Ma poi i giorni passano, l’attenzione cala, l’effetto mediatico si smorza e i media spostano l’obiettivo su altre notizie, altri luoghi, altre problematiche. E ci si dimentica del Giappone o si crede che sia tutto risolto. Ma non è così. In realtà i media hanno una loro agenda e dei tempi da rispettare, risorse umane da considerare, l’attenzione dei lettori da mantenere viva, fattori che impediscono loro di seguire nel lungo termine tutte le evoluzioni di una tragedia di così grande portata come il terremoto in Giappone.
Eppure è fondamentale non dimenticare, non abbandonare a loro stessi i luoghi e le persone colpiti da catastrofi ambientali o di altri natura. La pensa così Giordano Cossu, ingegnere di formazione, consulente di media con una grande passione per il giornalismo, autore insieme al web reporter Benoit Cassegrain di un web documentario sulla ricostruzione di Haiti dopo il terremoto. «Goudou Goudou», nell’espressione locale «terremoto» è il titolo di questo reportage giornalistico, recentemente premiato al Festival del giornalismo di Perugia, che mostra come altri modi e forme di fare informazione siano possibili, che «i problemi si possono raccontare con calma, senza la fretta del giorno data dall’attualità, dalla notizia. Molte persone mi hanno detto che Haiti non è più d’attualità. Che vuol dire? Se il problema esiste bisogna parlarne e se ne può parlare in tante forme diverse». E per fare questo si prestano bene i nuovi media che ne facilitano non solo la realizzazione, ma anche la diffusione. Lo ha già dimostrato lo scorso anno l’inchiesta giornalistica online di Propublica sulle condizioni in cui operavano i medici di un ospedale di New Orleans dopo la tragica alluvione provocata dall’Uragano Katrina, vincendo il prestigioso Premio Pulitzer.
Costato 60.000 euro e realizzato con il supporto di Reporters sans Frontières Fondation de France, Radio France International, il documentario ha il pregio di mostrare una realtà diversa di Haiti da quella che i mainstream media ci hanno raccontato, una realtà che viene dal cuore del Paese e della sua gente, una realtà genuina fotografata grazie alla collaborazione e all’aiuto di cinque giornalisti locali: Ralph Joseph che nel documentario tratta l’aspetto della vita nei campi di raccolta dei sopravvissuti al terremoto, Mc Haendel Paulémon quello delle macerie e della ricostruzione di Haiti, Orpha Dessources il problema del colera, Eloge Milfort l’impatto delle ONG e degli aiuti umanitari sulla popolazione, Roberson Alphonse la forza dell’arte e dell’impegno civile per la ricostruzione. Per saperne di più abbiamo intervistato Giordano Cossu, uno degli autori.
Come è nato il progetto?
«L’idea è nata dopo il terremoto, dall’ impeto di fare qualcosa per aiutare Haiti e dalla voglia di raccontarla in modo diverso da come hanno fatto i principali media. Perché quando una catastrofe è mediatica si concentra moltissima attenzione, ma questa non necessariamente porta ad una maggiore comprensione. Anzi, paradossalmente il fatto che una catastrofe sia mediatica significa che tutti i giornalisti internazionali vanno sul luogo e frequentano gli stessi posti spesso soffocando e dimenticando quelle voci locali che invece sono fondamentali per la comprensione della situazione. Dunque il progetto è nato nell’ottica di far raccontare Haiti agli haitiani, di dare loro la parola scavando in profondità e mettendo a tema tutti i problemi urgenti della società haitiana al fine di permettere una migliore visione delle cose dall’esterno».
Come mai il titolo «Goudou Goudou»?
«Goudou è una parola coniata dopo il terremoto, onomatopeica perché riproduce il suono del terremoto quando tremano gli edifici. È l’espressione locale dunque per indicare il terremoto. Quando giravamo sul posto abbiamo trovato dei giovani artisti locali che avevano composto una canzone rap-hiphop proprio con questo nome ed è poi diventata un clip musicale del video. Canzone gioiosa che esprime la voglia di andare avanti e riassume un po’ il messaggio del documentario».
Che è poi un web documentario ma non solo… «Infatti, nel senso che il web documentario è uno degli strumenti principali con cui abbiamo voluto spiegare che cosa succede ad Haiti, ma il progetto in realtà comprende anche un blog multimediale in inglese e francese “Solidar’IT in Haiti” in cui IT è intesa come information technology volta ad aiutare il giornalismo locale, far sì che diventi anche un giornalismo umanitario che contribuisca in qualche modo alla ricostruzione. Quindi sul blog abbiamo iniziato a pubblicare varie storie locali sempre raccontate dagli haitiani o realtà locali molto precise, da questo poi è nato il progetto più grande del web documentario».
In che modo esattamente intendete aiutare il giornalismo locale?
«Questa è la terza fase del progetto alla quale stiamo lavorando. L’intenzione è quella di passare delle competenze di tipo multimediale ai giornalisti locali con i quali abbiamo lavorato, ma anche ad altri. Questo permetterà loro di generare contenuti che andranno ad arricchire il nostro web documentario e quindi il modo di raccontare Haiti nel tempo, tenendo viva l’attenzione su quel che succede attraverso le voci dei giornalisti locali».
In «Goudou Goudou» avete già coinvolto dei giornalisti locali.
«Sono diversi i giornalisti locali che abbiamo avuto modo di conoscere sul campo in maniera spontanea e alla fine ne abbiamo scelto cinque che erano particolarmente giovani, impegnati e con una volontà forte e sincera di contribuire alla ricostruzione del Paese. Ognuno nel documentario presenta una tematica».
Nella parte sulle forme d’arte colpisce molto la rappresentazione della compagnia teatrale.
«Abbiamo conosciuto una compagnia teatrale locale che ha messo in piedi uno spettacolo in cui tutti i personaggi appartengono alla cultura voodoo, quindi ci sono anche gli zoombie che in questo caso però rappresentano i morti del terremoto che ritornano in scena e portano un messaggio sociale molte forte. È un’accusa ai governanti di essere responsabili di quanto successo perché non si sono accertati che le costruzioni fossero fatte bene, sicure creando invece una massa di poveri che ha trovato rifugio nelle bidonville».
C’è una storia in particolare che l’ha colpito durante le riprese?
«Abbiamo passato alcune giornate con Ralph un giornalista che poi è diventato uno dei protagonisti del documentario. Ogni giorno andava a visitare un campo di vittime del terremoto parlando con loro e portando fuori dal campo la loro voce. Nel senso che i reportage che realizzava venivano trasmessi alla radio e dunque ascoltati dalle vittime degli altri campi. Questo ci è piaciuto tantissimo soprattutto per il livello di profondità e lo scambio di conoscenze sui problemi locali. Una frase che ricordo disse Ralph e che mi ha molto colpito è stata: “Io, come giornalista haitiano, non mi ero reso conto che ci fosse tanta povertà nel mio Paese”».
Che cosa si può fare per migliorare questa situazione?
«Non pensiamo ad Haiti solo come una terra martoriata in cui tutti sono poveri. Il fatto è che tutta questa povertà c’era già prima del terremoto, semplicemente era nascosta. Il terremoto ha fatto sì che uscisse nelle strade, nelle piazze pubbliche. Tutte le piazze principali della città dove prima passavano solo i benestanti si sono popolate di tende di fortuna. E questo ha fatto capire anche a molti haitiani quanto il Paese dovesse essere ripensato in maniera più gusta, più sociale dalle sue fondamenta. E che i giornalisti in questo avevano un ruolo importantissimo».
Quale è il messaggio che volete dare?
«Non dimenticare. Tutti hanno donato qualche cosa per Haiti l’anno scorso e ora in molti – visto che l’attenzione dei media è scemata e si è spostata altrove – credono che il problema sia stato risolto. In realtà non è così e si rende necessario aprire e mantenere il dibattito su come sia efficace o meno aiutare davvero gli haitiani. Il messaggio che noi portiamo è quello di fare di più coinvolgendo le molte organizzazioni locali. Per la ricostruzione di Haiti è necessario dare più voce e forza agli haitiani che sentono invece che quel poco che potevano fare attraverso la società civile e le istituzioni è venuto meno a causa di una logica per cui tutto quello che succede ad Haiti può succedere solo attraverso gli aiuti umanitari che organizzano le attività e i progetti nei campi. Troppo spesso senza ascoltare le voci e le esigenze locali. Il nostro lavoro vuole spiegare perché l’intervento umanitario non ha cambiato la vita degli haitiani in meglio, ma ha fornito loro una panacea temporanea nella quale sopravvivere».
Quindi le ONG non servono?
«Nell’urgenza è chiaro che l’aiuto delle ONG è strettamente necessario e importante. Ma nel lungo termine possono essere dannose se non operano in collaborazione con le realtà locali rendendo autosufficiente la popolazione e le istituzioni locali».
Questo progetto ha cambiato qualcosa nella sua vita?
«Intanto ha creato un legame con Haiti per la vita. Mi ha fatto capire che ci sono tanti altri casi in cui il concetto di voci locali è importante. E diciamo che Internet permette sia di ascoltare nuove voci ma anche di trovare nuovi modi per diffonderle e farle ascoltare. Quindi anche i prossimi progetti saranno orientati ai nuovi media, ma sempre con uno spirito e un contatto umano molto forte. Questo deriva dalla mia passione per il viaggio alla scoperta e alla comprensione delle culture».
In futuro?
«Vorremmo farne una versione televisiva che sia diffusa il più possibile nel mondo e poi creare dei legami che ci permettano di applicare l’esperienza di Haiti ad altri contesti simili come il terremoto dell’Aquila o del Giappone. Dal confronto tra scenari diversi si possono imparare molte cose».
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