James Risen e la difesa delle fonti

24 Novembre 2014 • Libertà di stampa • by

“Questo libro è la mia risposta ai tentativi del governo di perseguirmi”, ha dichiarato James Risen al Guardian, intervistato da Trevor Timm della Freedom of the Press Foundation. Il testo in questione è Pay Any Price, il nuovo libro – appena edito negli Usa – di James Risen, reporter Premio Pulitzer del New York Times specializzato in questioni di sicurezza nazionale e whistleblowing. Nel suo libro, Risen ripercorre la guerra degli Usa contro il terrore dall’11/9 fino a qui, evidenziando abusi di potere e un culto per la segretezza spesso in aperto contrasto con la democrazia.

Dal 2008, Risen ha addosso le attenzioni del Dipartimento di Giustizia americano che ha cercato in tutti i modi di farlo testimoniare in tribunale perché rivelasse l’identità di una sua fonte. Il caso risale a due anni prima, quando il precedente libro di Risen, State of War, viene dato alle stampe: in un capitolo, il giornalista americano fa riferimento a un piano segreto della CIA volto a sabotare il programma nucleare iraniano. La fonte di quella rivelazione è interna all’intelligence Usa, Risen la conosce, mentre le autorità la identificano velocemente con Jeffrey Sterling, un ex-agente Cia divenuto whistleblower accusato ai sensi dell’Espionage Act del 1917. Il Dipartimento di Giustizia cerca una conferma e manda una prima subpoena contro Risen, che da lì in avanti si rifiuterà di tradire uno dei fondamenti della sua professione: la protezione, a tutti i costi, delle proprie fonti.

La complessità della vicenda, comunque, risale ancora a prima. Nel 2003, infatti, James Risen aveva già per le mani lo scoop del programma iraniano della Cia e il New York Times pronto a pubblicare: per stessa ammissione di Jill Abramson, allora editor del quotidiano americano, una telefonata di Condoleeza Rice bloccò la pubblicazione di quella storia, richiesta cui la Grey Lady acconsentì, lasciando di fatto l’opinione pubblica all’oscuro del fatto fino all’uscita di State of War. Anche nel caso di quel libro, partì una telefonata dalla Casa Bianca verso l’editore Simon & Schuster al fine di bloccare l’uscita nelle librerie. Ma il testo era già sugli scaffali.

Quando ancora Edward Snowden e i suoi leak sulla sorveglianza della Nsa e delle agenzie ad essa connesse non erano sotto la luce dell’opinione pubblica americana e globale, Risen fu il primo giornalista a pubblicare, già nel 2005, alcune rivelazioni su come l’amministrazione Bush, tramite la Nsa, avesse messo sotto controllo senza le dovute garanzie legali le telefonate e le comunicazioni elettroniche internazionali di “centinaia forse migliaia di cittadini americani” già pochi mesi dopo l’11/9. La serie di articoli dedicati al caso e pubblicati dal New York Times sono valsi a James Risen e a Eric Lichtblau un Premio Pulitzer. Anche in quel caso, il New York Times aveva tenuto la storia nel cassetto per 13 mesi.

Negli ultimi sei anni, Risen ha resistito a tutti gli attacchi con fermezza fino alla Corte Suprema che, lo scorso giugno, ha rifiutato la richiesta di appello del giornalista, ponendo di fatto fine agli strumenti legali a sua disposizione per difendere se stesso e la sua fonte: “continuerò a combattere”, aveva dichiarato Risen al New York Times dopo la sentenza. Il rifiuto del giornalista a rivelare il nome della sua fonte, fin qui, ha anche bloccato i procedimenti contro Sterling. Nelle prossime settimane, ha scritto il Washington Post, Risen potrebbe essere oggetto di un’altra subpoena e qualora si rifiutasse di testimoniare anche questa volta, potrebbe finire in carcere. 

Ne mezzo del suo percorso legale, Risen è stato coinvolto in prima persona anche nel nuovo caso Nsa: per il New York Times ha intervistato Edward Snowden, firmato alcuni articoli basati sulle rivelazioni del whistleblower insieme a Laura Poitras, oltre ad aver concluso il suo nuovo libro. Il suo caso è più unico che raro, ma è un tassello in un mosaico che comprende altri episodi preoccupanti che stanno coinvolgendo la libera stampa negli Usa e altrove.

La storia di James Risen, infatti, si inserisce nel medesimo contesto che vede Chelsea Manning in carcere, Snowden e altre sette persone – compreso Jeffrey Sterling – accusate di spionaggio con un Act del 1917 per essere fonti giornalistiche, un record negativo di Barack Obama che non ha precedenti nella storia degli Usa. Casi cui si aggiungono anche la sorveglianza di alcune linee telefoniche dell’Associated Press, delle comunicazioni del giornalista di Fox News James Rosen e, nel Regno Unito, i recenti abusi delle leggi anti-terrorismo per sorvegliare le comunicazioni di alcuni giornalisti al fine di risalire alle loro fonti, proprio come nel caso di Risen. L’epilogo della storia di Risen rischia quindi di essere emblematico di un clima avverso al giornalismo investigativo. “La scelta che il governo mi ha dato è rinunciare a tutto quello in cui credo o andare in prigione”, ha dichiarato James Risen in una recente intervista con “60 Minutes” della Cbs, “non parlerò”.

Articolo pubblicato originariamente su carta da Pagina99 l’1 Novembre

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