Nel settore mediatico degli ultimi tempi, metaforicamente parlando, teste vengono mozzate senza sosta e, troppo spesso, si tratta di teste notevolmente brillanti. Recente è il caso della Neue Zürcher Zeitung, dove il direttore Markus Spillmann è stato messo alla porta dal consiglio di amministrazione del giornale apparentemente a causa di divergenze sulla linea editoriale, nonostante Spillmann avesse condotto la redazione, non proprio famosa per la sua disponibilità a rinnovarsi e sperimentare, nel futuro dei media digitali convergenti, e con notevoli successi.
Il tentativo del consiglio di inserire come successore il già direttore di Basler Zeitung Markus Somm è poi clamorosamente fallito per via di un’ondata di proteste da parte della redazione e dei lettori liberali del giornale. Somm è infatti sia biografo che confidente del politico di destra Christoph Blocher.
Il direttore di Der Spiegel Wolfgang Büchner è invece riuscito a rivolgere contro se stesso l’intera redazione della versione cartacea del suo settimanale quando aveva cercato di unirla con quella dell’online. Si dà il caso che solo i giornalisti della carta sono al contempo privilegiati comproprietari dello Spiegel e sono per questo più influenti. Anche i tentativi dei due predecessori di Büchner di fare innovazione all’interno della rivista sono falliti a causa di questa grottesca struttura di proprietà e nel frattempo la redazione si è fatta la fama di essere “ingovernabile”. Il caso del New York Times, dove la direttrice Jill Abramson è stata destituita dopo poco tempo, mostra invece che non tutti i giornalisti eccellenti sono in grado di dirigere in modo eccellente una grande redazione.
Sempre più frequentemente, invece, come in precedenza per Stern in Germania e per il New Republic negli Usa, si tratta semplicemente di casi di gerarchi editoriali che cercano disperatamente un capro espiatorio da incolpare per il malfunzionamento del “nuovo” business model del giornalismo e non sanno che pesci pigliare. Chiaramente, non è solo colpa dei direttori se lettrici e lettori si sono trasformati in utenti e si aspettano che online tutto sia gratuito, quando nei “bei vecchi tempi” erano invece ben disposti a pagare per l’informazione.
E non è nemmeno una défaillance delle redazioni se gli inserzionisti scelgono di posizionare le loro pubblicità su social media come Facebook oppure sui motori di ricerca come Google, dato che in questo modo possono raggiungere i loro target in modo mirato, mentre sui siti di informazione spesso importunano persone che non hanno nulla a che vedere con quanto pubblicizzano.
Sono finiti i tempi in cui i direttori restavano in servizio per anni o addirittura decenni. Che grandi giornalisti si dimettano dalle loro cariche, come ha appena fatto il direttore del Guardian di Londra Alan Rusbridger, piuttosto che esserne cacciati, è ormai quasi diventata l’eccezione alla regola.
Fino ad ora, però, tutti i record in fatto di licenziamenti sono stati battuti da Gruner + Jahr, società sussidiaria di Bertelsmann, che ha messo alla porta l’intera redazione della sua più importante rivista femminile, Brigitte, facendone restare solo i vertici. Considerando l’avanzata del “robot journalism” (giornalismo fatto da software in grado di generare testi), di cui si discute parecchio ormai anche fuori dalla comunità di professionisti americani, questa decisione guarda senz’altro al futuro.
Dove non si utilizzano ancora i robot, ci si augura che gli editori e i direttori facciano più spesso una pausa per approvvigionarsi un po’ di conoscenze scientifiche nell’ambito della gestione delle redazioni. In questo modo la vita negli uffici di alcuni giornali si farebbe forse un po’ più umana e qualche licenziamento nei giornali potrebbe persino essere evitato.
Articolo pubblicato originariamente sul Corriere del Ticino il 15/01/2015
Nella foto: Alan Rusbridger parla alla redazione del Guardian dopo la vittoria del Premio Pulitzer nel 2014. Photo credits: Katy Stoddard / Flickr CC
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