Tanti, con poche possibilità di un lavoro dipendente e destinati a pensioni molto basse. È questa la situazione dei giornalisti italiani fotografata nel rapporto di Lsdi dal titolo emblematico “Il paese dei giornalisti”. In Italia, a fine 2012, una persona ogni 526 abitanti (bambini compresi) aveva in tasca un tesserino da giornalista, contro una media di uno su 1778 in Francia, uno su 4303 in Cina e uno ogni 5333 negli Stati Uniti. Anche se in realtà i cosiddetti “attivi”, quelli cioè con una posizione contributiva all’Inpgi, sono solo la metà, quasi 48.000 su 112.046 iscritti complessivi all’Ordine. Se si guarda al medio periodo balza all’occhio il cambiamento radicale in atto. In tredici anni la composizione degli “attivi” si è infatti completamente rovesciata: nel 2000 il lavoro autonomo veniva svolto da poco più di un giornalista su tre, nel 2012 sono diventati sei su dieci. Durante l’ultimo anno si è avuta una flessione nel campo del lavoro salariato dell’1,6%, mentre in quello autonomo le posizioni attive sono aumentate del 7,1%. I giornalisti dipendenti rappresentano, quindi, solo il 18,8% degli iscritti all’Ordine, in soldoni meno di un giornalista su 5 ha un contratto a tempo indeterminato.
Un’anomalia tutta italiana che vede crescere anche i giornalisti attivi visibili: l’aumento è del 3,2% tra quelli con lavoro subordinato, i liberi professionisti e i co.co.co, una percentuale significativa che conferma l’eccezione del nostro paese. Quella giornalistica è quindi una professione che continua ad affascinare ma che rischia di indebolirsi. Il sorpasso tra autonomi e dipendenti è avvenuto tra il 2008 e il 2009 (da 19.568 a 23.213 i primi, da 20.257 a 20.087 i secondi) e i dati forniti dagli Istituti di categoria confermano un persistente e crescente gap nei redditi tra le due posizioni lavorative. La media annua delle retribuzioni dei giornalisti dipendenti nel 2012 era di 62.459 euro, ma se si tiene conto dei compensi nel lavoro autonomo e parasubordinato la media retributiva generale di un giornalista attivo scende a 33.557 euro. In pratica, il reddito medio dei dipendenti è 5,5 volte maggiore rispetto a quello degli autonomi e di quasi sette volte quello dei co.co.co. La debolezza salariale di questi ultimi è molto più accentuata se guardiamo ad altri paesi, come la Spagna dove il 65,1% degli autonomi ha redditi sopra i 1.000 euro al mese.
“È necessario attuare strategie flessibili, realiste e inclusive verso gli autonomi – spiega a Lsdi Maurizio Bekar, coordinatore della Commissione nazionale del lavoro autonomo Fnsi – per non lasciare nessuno indietro e senza tutele. È quindi indispensabile la battaglia per l’equo compenso degli autonomi”. E sulla riforma dell’Ordine: “L’Ordine dovrebbe rappresentare tutti quelli che esercitano effettivamente la professione, anche solo saltuariamente, ma in forma retribuita e con il pagamento dei contributi. Altrimenti si è di fronte a un hobby, a del volontariato”.
Anche Paolo Serventi Longhi, ex segretario generale della Fnsi e vicepresidente Inpgi, interviene sull’equo compenso in un’intervista in cui analizza i dati emersi dal rapporto di Lsdi: “C’è l’esigenza di retribuire decorosamente e tutelare i diritti e le condizioni di lavoro e di vita di migliaia di collaboratori non stabilizzati, a cominciare da quelle ragazze e ragazzi, ma anche meno giovani, che sono ai margini delle redazioni ma che con il loro lavoro riescono a garantire larga parte del prodotto giornalistico delle testate. Due, tre, quattro mila stabilizzati in più, anche con strumenti flessibili, consentirebbero di riaprire un mercato del lavoro oggi bloccato”.
La crisi è però ben visibile anche nel lavoro dipendente, come dimostrano i dati del Fondo complementare di previdenza. “Tra vent’anni – spiega, nel report, Ignazio Ingrao del consiglio di amministrazione del Fondo – si presenterà il problema dei giornalisti pensionati con redditi pericolosamente bassi”. L’andamento negativo sul piano di lavoro subordinato è confermato anche dai dati Casagit: nel 2012 i soci contrattualizzati sono diminuiti di 520 unità. Ad aggiungere tinte fosche ad un quadro già scuro c’è l’aumento sempre più massiccio del ricorso agli ammortizzatori sociali, le indennità di disoccupazione pagate dall’Inpgi sono cresciute del 6,7%.
La professione invecchia e il turnover è bloccato. Quasi un giornalista su tre è ultracinquantenne, mentre nel 2000 lo erano meno di due su dieci. Un processo di invecchiamento lento ma progressivo che interessa anche gli autonomi: il 9,4% sotto i 30 anni nel 2012, il 12,2 nel 2009. Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei giornalisti, a margine del rapporto Lsdi, sui pensionati afferma: “Il problema è un altro: il loro uso perfino in redazione, con gli stessi compiti che svolgevano prima del pensionamento, o perfino del prepensionamento”. Non è un mestiere per giovani: lo scarto d’età tra professionisti e pubblicisti comincia ad aumentare nella fascia 31-35, quando i primi doppiano i colleghi fino ad arrivare a una differenza notevole nella fascia 46-50 (3362 professionisti contro 481 pubblicisti).
E i giornalisti invisibili? 50.365 iscritti all’Ordine, a fine 2012, non avevano nessuna posizione Inpgi. È facile immaginare come in questa grossa fetta di giornalismo ci sia un’ampia fascia di “super-precariato”, composta da centinaia di giovani che sperano in una tessera per lo sbocco nel giornalismo. Ma se continua a crescere il numero dei pubblicisti, lo stop arriva nel momento del praticantato (con una diminuzione del 7,7% negli ultimi due anni). Nel 2012 i praticanti classici, quelli cioè con un contratto di lavoro dipendente, ammessi all’esame di idoneità professionale erano solo il 40,3%, un altro 33,3% proveniva dal precariato e solo il 26,4% dalle scuole di giornalismo.
Dando uno sguardo alle varie Regioni si vede come Lombardia, Lazio e Campania siano quelle con il maggior numero di iscritti all’Ordine, mentre Puglia, Basilicata e Campania stessa presentano il maggior incremento di nuovi ingressi nell’albo professionale. Risulta ancora una volta necessaria una riforma dell’Ordine “se non sarà riformata radicalmente la legge istitutiva credo che non abbia più alcun senso”, questo il pensiero di Serventi Longhi – “un’istituzione corporativa di mera difesa dell’esistente è più dannosa che utile. C’è però bisogno di una formazione professionale di qualità, di una rigorosa sorveglianza nella tenuta degli albi rispetto alle quali un Ordine riformato potrebbe ritrovare prospettive davvero importanti. Ma resto pessimista”.
Il report di Lsdi è riassunto nei grafici a cura dei data journalist Mara Cinquepalmi e Andrea Nelson Mauro, disponibili qui.
Photo credits: Nicolas Nova / Flickr CC
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