Un Rapporto 2017 del Tow Center for Digital Journalism ha riassunto nella definizione di «platform press» alcune tra le principali trasformazioni intervenute nel panorama informativo contemporaneo. Lo scenario si caratterizza per il ruolo “inevitabilmente” editoriale che i social media stanno progressivamente assumendo, per un deciso slittamento verso il market centered journalism e per la costante crescita della competizione tra canali e testate al fine di conquistare e fidelizzare i pubblici. L’obiettivo di catturare l’attenzione degli utenti connessi (vera “risorsa scarsa” dell’economia digitale) e stimolarne l’agency muove la sperimentazione di contenuti e formati: un processo indispensabile a garantire la riconoscibilità di un prodotto e a incuriosire le audience trattenendole nel circuito produttivo che genera valore attraverso la partecipazione, il commento, l’attivazione di discussioni, la condivisione di contenuti eccetera. La valorizzazione economica dell’engagement dei pubblici è dunque centrale nei progetti editoriali della platform press, in particolare di quelli nativi su piattaforma: è questo il caso di Freeda, un social media magazine rivolto prevalentemente a audience femminili con vocazione latamente politica.
Freeda nasce nel 2016 e mostra fin da subito la capacità di capitalizzare un bacino di lettori-followers in continua crescita. Già dalla scelta della denominazione, il progetto dichiara un’identità culturalmente progressista e una personalità forte: grafia e fonetica rinviano alla parola freedom, oltre che all’iconica e celebrata artista Frida Khalo. Il target cui si rivolge è composto da donne tra i 18 e i 34 anni – quelle che la ricerca di mercato definisce millennials – con i loro specifici stili di vita e consumo e la loro familiarità con gli ambienti connessi. Per inciso, si tratta non a caso dello stesso segmento anagrafico di audience che uno studio di An Nguyen individua come maggiormente incline alla fruizione di soft news.
La strategia editoriale individua i social media – Facebook (2,6 milioni di fan) e Instagram (1,6 milioni di follower) in particolare, oltre a un canale YouTube – come gli ambienti privilegiati per la distribuzione di contenuti; il sito web conserva funzione esclusiva di landing page, e solo occasionalmente gli articoli presentano link esterni che spezzano la circolarità della fruizione interna alla pagina. Questa scelta porta con sé la predilezione per formati specifici come instant articles, brevi post, video, immagini, grafiche e cards, che riflettono (e allo stesso tempo modellano) le pratiche contemporanee di consumo di informazione via social. I contenuti (testi, immagini e filmati sottotitolati, per la fruizione anche in modalità “silenziosa”) sono originali e realizzati dalla redazione. Coerentemente con la logica dei social media, anche il modello di business si fonda su native advertising e branded content, con la pubblicazione di contenuti sponsorizzati da marche sensibili alle istanze di audience femminili, riguardanti in genere consigli di stile, moda e cura di sé, e affrontano tematiche considerate attrattive per donne e consumatrici consapevoli (dalla cosiddetta pink tax alla promozione di modelli estetici inclusivi).
A caratterizzare Freeda è il tipo di adesione ed engagement richiesto ai pubblici. I contenuti sono declinati lungo l’asse del cosiddetto empowerment feminism, che con il suo accento sul potere della scelta e sul controllo delle risorse materiali e simboliche, ben si presta ad essere declinato nelle forme del femvertising. Un fenomeno di marketing, certamente, ma anche una strategia discorsiva utile a individuare e “coltivare” nicchie di consumatrici, che promuove storie di singole donne “realizzate”, esalta l’eccezionalità e l’unicità di ciascuna e racconta di successi individuali ai quali ispirarsi per migliorarsi. Trascurando, per contro, gli elementi di conflittualità manifesta che sono al centro dei movimenti femministi degli scorsi decenni. Come nelle soft news, l’attenzione si sposta su temi rilevanti per i singoli individui piuttosto che per la vita pubblica e politica, dall’autoaffermazione nella sfera privata e professionale all’accettazione di sé e all’accrescimento dell’autostima. Ne risulta un femminismo “in pillole”, che possiamo definire shareable in una doppia accezione – condivisibile cioè tanto nei toni, nelle estetiche, nei valori e nei consumi promossi, quanto nei formati che ne consentono la diffusione via social media.
Dal momento che le tech company ospitano oggi una porzione significativa del discorso pubblico, e su questa ospitalità fondano in qualche modo i propri profitti, si può ragionare intorno al cortocircuito “politico” e “di mercato” provocato dalla necessità di valorizzare l’attività online di specifiche porzioni di audience. Per composizione socioculturale, quello di Freeda è un target “generalista”, potenzialmente bendisposto nei confronti di un femminismo stemperato, pop, liberal, in cui il conflitto e la dimensione della rivendicazione collettiva appaiono depotenziati e restano invece ben fermi i richiami alla valorizzazione delle qualità delle donne, all’esaltazione delle specificità individuali, al raggiungimento di obiettivi personali. Questo complesso di caratteristiche rimanda a una femminilità idealtipica indipendente, consapevole, capace di scegliere, motivata al successo. Un’immagine che funziona (e si vende bene) in un momento storico caratterizzato dai postumi di una crisi economica importante e da segnali di arretramento in campo politico e culturale, mentre l’occupazione femminile decresce e il discorso populista non nasconde sfumature misogine.
Assistiamo forse a una inedita forma di “coltivazione” dei pubblici, che non riguarda esclusivamente le audience connesse: penso al successo delle Storie della buonanotte per bambine ribelli (2016), libro che racconta alle giovanissime le vite di donne “eccezionali”. È però innegabile che la dimensione connessa sia in grado di rinforzare gli atti individuali agli occhi di chi li compie caricandoli di contenuti – un fattore determinante tanto per il successo delle campagne politiche (pensiamo al networked feminism del #metoo) quanto per i fini di mercato. Se interpretate come pratiche volta a manifestare empowerment, anche l’esibizione di un acquisto (una t-shirt con un messaggio “femminista”) o la condivisione di un post sponsorizzato possono rappresentare forme di posizionamento politico. Si configura così un campo piuttosto disomogeneo entro cui convergono tendenze culturali, politiche e di mercato e in cui audience connesse e network dell’attivismo condividono spazi comuni e temi non di rado dialoganti.
La natura commerciale e orientata al mercato di questi prodotti editoriali è fuori discussione. Così come è chiaro che non saranno le condivisioni di hashtag e meme a modificare una volta per tutte i rapporti di potere tra i generi. Per quanto invece riguarda i livelli di consapevolezza individuali e collettivi – e dunque per le eventuali “contromisure” da prendere perché l’audience engagement abilitato dalle tecnologie di rete e messo a valore anche dalle imprese editoriali che ne popolano l’ecosistema, compia, eventualmente, un salto di qualità – ancora una volta, è il caso di affidarsi a forme più avanzate non soltanto di digital- ma anche di political literacy.
Questo articolo è tratto da un paper pubblicato sul numero 3/2018 del journal Problemi dell’Informazione, partner dell’Osservatorio europeo di giornalismo
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