È dell’altro giorno la notizia che il governo turco ha lanciato investigazioni che interessano potenzialmente 5 milioni di messaggi inviati su twitter durante le tre settimane di manifestazioni antigovernative. Il numero due del partito islamico Akp del premier Recep Tayyip Erdogan, Huseyin Celik, aveva già indicato che 105 siti e 262 account twitter sono sotto inchiesta. Non per niente Erdogan 10 giorni fa ha definito la rete sociale, ampiamente usata dai manifestanti, una ”minaccia” per la società”. Nell’epoca della convergenza culturale e delle rivolte come quelle arabe e turche, nessun ambiente dei media può essere considerato isolato dagli altri ambienti multimediali, afferma Henry Jenkins, mentre la dimensione online e offline sono sempre più intrecciate. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Anzera, docente di Sociologia delle Relazioni Internazionali presso il dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università La Sapienza di Roma, che ha spiegato all’EJO il ruolo dei social media nella rivoluzione araba, rapportandola all’attuale momento di tensioni in Turchia.
Si è parlato molto del ruolo che i nuovi media avrebbero avuto nella primavera araba. Adesso vedendo l’evoluzione politica che è seguita al ribaltamento dei governi, che idea si è fatto? C’è chi dice che in fondo il ruolo dei social media vada ridimensionato e ridotto a collettore di pulsioni già esistenti nella società più che a generatore di esse (insomma un braccio di ferro tra evangelisti digitali e tecno realisti).
“Analizzando in profondità il ruolo dei social media in quelle che preferisco chiamare rivoluzioni arabe (per approfondimenti: l’articolo scritto insieme a Francesca Comunello, docente di Comunicazione on line sempre nel primo ateneo romano, e il mio capitolo nel libro “Le rivoluzioni della dignità” a cura di Stefano Rizzo) mi sono reso conto che è necessario raggiungere una certa equidistanza rispetto alle convinzioni degli evangelisti digitali e dei tecnorealisti; certamente i social media non hanno avuto quel ruolo fondamentale come si è creduto in Occidente, almeno per un certo periodo. In primo luogo sono stati impiegati efficacemente dalle forze di sicurezza (in Egitto o in Tunisia come in Siria) per individuare celermente la leadership dei movimenti di rivolta mostrandosi più pericolosi per i ribelli che per il governo (sui volantini per la ‘smart protest’ diffusi dai fratelli musulmani a piazza Tahrir era scritto in modo chiaro di non usare i social media perché erano tracciati dalle forze di sicurezza); secondo poi in paesi in cui l’alfabetizzazione informatica è ancora a livelli bassi, rispetto al totale della popolazione, è impensabile ritenere che questi strumenti possano trascinare in piazza tanti individui come è successo in Egitto e in Tunisia. Peraltro è stato, inizialmente, sottovalutato il ruolo di Al Jazeera che, in alcune fasi critiche, ha soppiantato i media generalisti di regime nei paesi in crisi (delegittimati perché ritenuti dagli stessi autoctoni solo organi di propaganda e quindi incapaci di informare) ottenendo una audience enorme e una influenza di grande rilievo.
Tuttavia non è possibile sostenere che i social media non abbiano svolto alcun ruolo nelle rivoluzioni arabe poiché, specialmente in Egitto, si sono dimostrati degli strumenti di incalcolabile valore, per l’organizzazione, la pianificazione, il coordinamento delle proteste nella fase iniziale della contestazione al regime, per quei gruppi (soprattutto giovanili) ad alto tasso di scolarizzazione e di alfabetizzazione informatica che sono stati i motori primari dei processi di rivolta e contestazione dei regimi. Sotto questo aspetto i social media, essendosi dimostrati indispensabili per i gruppi di elite che hanno avviato i processi rivoluzionari (su cui poi si sono innestate le operazioni di attori politici con ampia diffusione e presa sulla popolazione, come i fratelli musulmani, che hanno usato metodi più tradizionali per portare in piazza la popolazione) hanno certamente assunto un ruolo di rilievo nelle trasformazioni politiche. Il loro peso, in questi paesi, andrà aumentando nel prevedibile futuro, visto che si tratta di strumenti idonei a stimolare dibattiti e movimenti di opinione nelle fasi meno cruente politicamente e di ridefinizione dell’assetto socio-politico”.
“Piazza Taksim non è piazza Tahrir piuttosto la protesta è più simile a quelle di Occupy Wall Street”, ha affermato il ministro degli Esteri Emma Bonino intervenendo di fronte al Parlamento. Quali sono le differenze tra queste piazze e quindi la sponda sud del Mediterraneo e il contesto turco? Possiamo parlare di “primavera turca” come un’appendice della primavera araba o accomunare i due contesti può risolversi in un’eresia?
“Sono d’accordo con la Bonino anche nell’identificazione dei manifestanti; il caso turco non è paragonabile con quanto successo in Tunisia, Egitto, Libia o Siria e non costituisce una appendice o prosecuzione delle rivoluzioni arabe. In Egitto, Libia e Tunisia le proteste erano dirette contro sistemi di tipo neopatrimoniale con delle “elite bloccate” saldamente al comando da decenni e leader autoritari ormai anziani protetti da apparati di sicurezza in grado di esercitare una repressione notevole sulle varie popolazioni (in Libia in modo ancor più pesante che non in Egitto e Tunisia). L’avvicinarsi della fine per questi leader (principalmente per cause biologiche), le spaccature interne delle varie elite politiche ed economiche assieme al peso della crisi economica, della disoccupazione giovanile, dell’aumento del costo del cibo oltre al mantenimento di un sistema dispotico e vessatorio hanno creato una situazione che ha favorito dei moti di piazza su larga scala più o meno violenti, a seconda delle reazioni della leadership politico-militare nei confronti dei rivoltosi. Tali condizioni sono molto lontane dalla realtà turca.
Le manifestazioni recenti, a mio parere, vanno contestualizzate nel momento che la Turchia sta attraversando sul piano interno e dal punto di vista internazionale. A causa della crisi siriana il sistema di sicurezza turco è, attualmente, particolarmente sensibile a dei moti di protesta interni per timore che questi possano costituire delle manovre “ispirate” dalla Siria e dall’Iran (principale alleato di Assad) per mettere in difficoltà il governo Erdogan e questo potrebbe spiegare il rapido e massiccio dispiegamento delle forze di sicurezza; l’errore grave, da parte dell’apparato di sicurezza interna turco, è stato inizialmente quello di non valutare correttamente l’essenza dei protestanti, principalmente ambientalisti (nei 100 iniziali) e provenienti dai partiti di opposizione (laico-kemalisti e non) nei giorni successivi e poi di affrontare i manifestanti con una violenza eccessiva; questa mossa non solo ha messo in cattiva luce Erdogan, ma ha alimentato e ingrandito le proteste e le fila dei contestatori.
Erdogan ha attuato una politica “dual track” per fornire una exit strategy ai contestatori, ma anche per sottolineare che, in caso di prosecuzione delle manifestazioni non esiterà a impiegare la forza per soffocare le proteste. Da un lato, infatti, è stato ammesso, da parte del governo che il comportamento delle forze di sicurezza, nelle fasi iniziali della protesta, è stato eccessivamente rude e violento oltre a tentare di disinnescare le proteste facendo balenare la prospettiva di posporre l’eventuale distruzione di Gezi Park. D’altro canto, Erdogan non solo ha ribadito che le forze di sicurezza continueranno a contrastare i presidi dei contestatori, ma ha anche fatto riferimento all’impiego dell’esercito per rimuovere i sit-in, una soluzione che, se impiegata, sarebbe estrema nei suoi significati, oltre che nella sostanza.
Questo atteggiamento di Erdogan nasce dal tentativo di conciliare esigenze diverse: per un verso si è tentato di limitare le accuse di eccessivo autoritarismo nei confronti del governo, ma, allo stesso tempo, appare chiaro il tentativo di evitare ad ogni costo una crisi politica e sociale prolungata in una fase molto delicata per lo stato turco e per lo stesso governo a guida AKP: il rallentamento della crescita economica, il delicato processo di pacificazione con i curdi del PKK, il passaggio referendario del 2014 che trasformerebbe il sistema politico turco da parlamentare a presidenziale, la situazione al confine siriano sono tutti problemi che il governo turco deve e dovrà affrontare nei prossimi mesi e certamente una situazione interna instabile renderebbe il contesto politico ancora più fragile.
Certamente il governo Erdogan non sembra sull’orlo di una crisi e sembra godere ancora di buona legittimazione nel paese; tuttavia le recenti manifestazioni, per rapidità di diffusione e ampiezza, specie in alcune grandi città, dimostrano una certa insofferenza nei confronti del governo in alcune fasce della popolazione (specialmente giovani urbanizzati) e una rinnovata capacità di mobilitazione da parte delle forze politiche kemaliste; inoltre non vanno sottovalutate le voci critiche provenienti dallo stesso AKP, contro l’eccessiva reazione del governo alle proteste, e da alti livelli della comunità di affari (il caso Ozen, manager dell’importante banca Garanti). Infine alcuni analisti hanno notato che l’esercito (tradizionalmente attore di rilievo nel mantenimento della stabilità politico-sociale turca) ha mantenuto un atteggiamento essenzialmente neutrale nella crisi, interpretando il mancato manifesto appoggio al governo da parte dell’esercito come un tentativo di non rimanere invischiato nella gestione della sicurezza interna con la crisi siriana alle porte”.
Come si differenzia l’uso dei social network, quali Twitter, in società tanto diverse ma comunque accomunate dall’essere attraversate da moti di protesta governativi?
“Twitter non è molto diffuso nei paesi arabi in cui si sono avuti regime change o gravi crisi politiche (per la diffusione a fine 2012 guarda qui: http://www.sgi.com/go/twitter/images/hires/figure4.png) anche se si sta diffondendo molto in quelle aree negli ultimi 24 mesi. Il suo impiego da parte dei rivoltosi, per ora mi è sembrato più di connessione con il mondo esterno, specialmente l’Occidente, per segnalare l’andamento delle crisi o le repressioni/attacchi delle forze lealiste che di coordinamento tra ribelli. Del resto altri strumenti, come Facebook o Youtube, sono più adatti a questo scopo consentendo di caricare materiali adatti per la diffusione di principi dottrinari, video per addestramento, ecc”.
Qual è il confine tra giornalista e attivista? Fino a dove il giornalista può diventare voce della protesta o limitarsi a scrivere i fatti?
“Se parliamo dei giornalisti presenti nei paesi arabi che hanno sperimentato le rivoluzioni diciamo che, essendo per la maggioranza appartenenti a organi dello stato difficilmente erano soggetti che potevano dare voce alla protesta. Le informazioni più delicate spesso sono state fatte trapelare ai media stranieri, direttamente o indirettamente, dagli stessi ribelli. Al Jazeera meriterebbe un discorso a parte vista la forte influenza che è riuscita a esercitare, durante le crisi, sulle stesse popolazioni coinvolte e il cui impatto è in corso di definizione in questo periodo attraverso una ampia serie di studi; la sensazione è che abbia svolto un ruolo determinante ed efficacissimo di contro-propaganda nei confronti dei media di stato dei paesi in agitazione”.
C’è il rischio che i media broadcast rilancino informazioni prese da Twitter magari senza verificarle? Si crea una contrapposizione tra comunicazione dal basso e mainstream?
“Il rischio esiste, ma ci sono molti casi, penso ad esempio alla copertura della BBC della crisi libica, in cui anche network importanti, dopo aver stabilito che le fonti erano affidabili, hanno impiegato informazioni provenienti da account Twitter appartenenti a soggetti in aree ad alto rischio (l’assedio di Misurata ad esempio) con pesanti combattimenti e assenza di reporter e telecamere occidentali.
Secondo me è proprio il contrario: più che contrapposizione mi pare si stia creando un interessante meticciamento tra comunicazione dal basso e mainstream mano a mano che i media tradizionali iniziano a sfruttare efficacemente i social media come fonte per alcuni tipi di notizia (ad esempio aree di conflitto); del resto se una notizia presa da Twitter rimbalza nel mainstream avrà una diffusione molto più ampia e rapida che non sui social media o perlomeno ancora è così in questo periodo in cui la forza dell’agenda setting è sostenuta da una ampia fetta di pubblico ancora teledipendente; in futuro, quando questa soglia si abbasserà, vedremo cosa succederà. Tuttavia credo che sia ancora decisivo che i media tradizionali rilancino le conversazioni che passano per i social media se non altro per la rapidità e diffusione delle informazioni; ma del resto è vero anche il contrario: delle immagini televisive importanti possono avere ampia diffusione nelle settimane successive alla messa in onda attraverso i social media. Siamo in una situazione in cui le due tipologie di strumenti iniziano a sostenersi rispetto alla diffusione delle notizie, piuttosto che correre in parallelo”.
Ma come si può declinare questo rapporto in un contesto dove il giornalismo è un’ancella del potere?
“Le rivoluzioni arabe ci hanno mostrato cosa succede quando gli organi di informazione sono solo dei mezzi di propaganda di regimi in crisi: vengono ignorati (come accaduto in Egitto e Tunisia) creando un vuoto che può essere colmato da attori esterni (si pensi ad Al Jazeera). Questa dinamica rappresenta un monito per quei paesi autoritari o semi autoritari che esercitano un forte controllo sui mezzi di informazione svuotandoli di capacità di informazione. Le tecnologie di comunicazione offline e online sono in grado di raggiungere una popolazione decisa a trovare fonti alternative d’informazione e, di conseguenza, l’assioma controllo dei media uguale controllo della popolazione sembra aver perso di importanza per quei regimi che sono già in calo di legittimazione e influenza presso la popolazione che dominano”.
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