Entrato in vigore il decreto legge con le nuove norme per i contributi all’editoria. Effettivo da subito e per i prossimi due anni. Per una riforma più completa si dovrà invece attendere l’approvazione del disegno di legge che ha iniziato il suo iter parlamentare. I tempi di approvazione? Sicuramente lunghi, lunghissimi. Nel frattempo ragioniamo sulle nuove regole. Ci sono innanzitutto meno soldi, circa 50 milioni di euro, una cifra di gran lunga inferiore a quella dei tempi passati, basti pensare che nel 2006 si era arrivati a spendere 600 milioni di euro e in precedenza somme ancora maggiori. I dati più recenti, resi disponibili sul sito della presidenza del consiglio dei ministri, sono quelli relativi al 2010 e corrispondono a una cifra complessiva di 150 milioni di euro.
E’ sufficiente analizzare le schede riferite alle singole categorie di testata, e a quelle che a tutt’oggi continuano ad usufruire dei finanziamenti, per rendersi conto di quanto iniquo e perverso sia il meccanismo che regolamenta l’erogazione dei contributi.
Al di là della presenza di testate fantasma, il problema di fondo è che la logica cui sono agganciati i benefit prevede un compenso direttamente proporzionale al numero di copie stampate e non a quelle effettivamente vendute. Viene quindi premiata la tiratura. Più questa è alta, maggiore è l’ammontare dei contributi. L’esempio più eclatante è quello de L’Avanti. Per ottenere i rimborsi relativi al 2010 il quotidiano dichiarava una tiratura di 3 milioni e mezzo di copie all’anno, quando quelle effettivamente distribuite in edicola erano solo 60 mila, di cui vendute solo poche centinaia. Insomma, l’erogazione di fondi pubblici dovrebbe essere razionalizzata, rapportata al numero di copie realmente distribuite e mirata a sostenere le attività di coloro che hanno effettivamente in essere delle strutture giornalistiche. La legislazione, soprattutto in passato, ha permesso che si potesse essere accreditati nel novero delle testate sovvenzionate dallo Stato attraverso furbizie ed espedienti di vario tipo. Una situazione che ha danneggiato coloro che avevano le carte in regola per accedere ai sussidi.
Il finanziamento pubblico deve essere rimodulato e deve prevedere delle drastiche restrizioni per la carta stampata a favore dell’editoria digitale. Perché, pur essendo accertato il diritto al finanziamento, si rende legittima la sostenibilità di un sistema che presenta costi nettamente superiori a quelli digitali? Perché, per esempio, tra i giornali di partito, non vi è nessuno che ha approfittato dei contributi alle testate online? Probabilmente per il semplice motivo che l’ammontare del finanziamento erogato sarebbe stato infinitamente minore.
Il Manifesto, giornale storico della sinistra, sta per essere liquidato, eppure non si è mai presa in considerazione l’idea di passare esclusivamente al digitale, operazione che permetterebbe di ridurre drasticamente le spese associate al modello cartaceo. Perché insistere per essere ancora un giornale di carta? Sembrerebbe che l’idea di non essere più in edicola sia vissuta come una estinzione definitiva. Gli ultimi dati relativi al finanziamento, quelli del 2010, evidenziano un contributo erogato nei confronti del Manifesto di 3 milioni e 745mila euro. Se quella stessa cifra fosse indirizzata esclusivamente all’online non potrebbe essere sufficiente a mantenere in vita il quotidiano? Se è vero che in passato, pur tra mille controversie, la sovvenzione pubblica ha garantito la sopravvivenza di alcuni giornali, perché oggi di fronte alla chiara impossibilità di sostenere i costi della carta non si valuta l’opportunità di percorrere un futuro solo digitale? Evidentemente perché, al di là di affermazioni formali, sono in tanti a ritenere che la carta sia ancora un valore insostituibile. O forse perché le forze politiche sono ancora del tutto impreparate a modernizzare l’editoria tradizionale.
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