Il Data Journalism è il nostro punk

22 Luglio 2014 • Giornalismi • by

“Se non sanno maneggiare dati, i giornalisti non sanno lavorare”. Questo è quanto afferma Nils Mulvad, giornalista, professore associato alla Danish School of Media e dirigente dell’azienda specializzata in data analysis Kaas & Mulvad. “Non si potrebbe lavorare come giornalisti se non si sapesse condurre un’intervista. Lo stesso ragionamento vale ora per il Data Journalism nell’era della digitalizzazione”, ha dichiarato Mulvad intervistato durante la conferenza Dataharvest+ 2014.

Per Mulvad è chiaro che per molti giornalisti il Data Journalism comporta più che la visualizzazione di dati attraverso diagrammi e grafici interattivi: “Il Data Journalism è un sistema d’allarme”, ci dice Mulvad, perché “analizzando i dati, a volte, si possono riconoscere dei problemi prima che questi possano causare gravi danni o prima che li si notino usando altri strumenti giornalistici”. Ci sono strumenti e pratiche che aiutano i giornalisti nel loro lavoro, come spreadsheet, scraping e data visualization. Lo scraping, ad esempio, permette ai giornalisti di osservare giornalmente come le diverse istituzioni lavorano, monitorando i nuovi contenuti che appaiono su diverse pagine Web.

I dati sono sempre stati centrali per il giornalismo. Mulvad ha evidenziato come il Wall Street Journal sia nato nel 1889 dall’evoluzione di una lettera giornaliera dalla borsa sull’andamento del Dow Jones. La mappa dell’epidemia del colera nella Londra del diciannovesimo secolo realizzata da John Snow, oltre ad aver cambiato il modo di studiare la malattia, ha costituito per i giornalisti un attuale modello per analizzare i dati. Ma il Data Journalism che conosciamo oggi deriva dal Computer-Assisted Reporting (Car). Già negli anni ’50, infatti, i reporter cominciarono ad analizzare dati usando dei software per analisi sociali e scientifiche. Uno dei primi esempi di Car fu realizzato nel 1952, quando la rete Cbs usò un computer Univac 1 per analizzare i risultati delle elezioni presidenziali statunitensi.

Nils Mulvad

“Per fare Data Journalism bisogna combinare tre tipi di abilità: giornalistiche, di programmazione e di Web design”, spiega Mulvad, e “a volte le si possono trovare tutte assemblate in una persona sola, altre invece si necessita di un intero team. In ogni caso, bisogna conoscere le basi della statistica e di altri metodi delle scienze sociali, per trattare i dati in modo accurato e non trarre conclusioni affrettate. Proprio per questo il Data Journalism viene anche chiamato ‘evidence based reporting’”.

Secondo Mulvad, inoltre, i dati spesso sono solo il primo passo nel processo di creazione della storia: “è molto importante che il giornalista esamini i dati direttamente invece di fare affidamento sui ricercatori. Proprio questo però succede spesso: i giornalisti intervistano persone che conoscono i dati, ma che probabilmente avranno scopi nascosti e formulato conclusioni di parte per giustificare il significato del loro lavoro. I giornalisti dovrebbero essere in grado di trovare le notizie più importanti nei dati e poi intervistare le fonti rispetto a quanto hanno scoperto”.

Sono state fatte interessanti ricerche sull’uso dei social media da parte dei giornalisti in Polonia che mostrano come essi non li usino come una possibile fonte di informazione, ma piuttosto come ispirazione e per trovare persone, fatti e cifre. Mulvad ritiene che, così facendo, i giornalisti stiano perdendo un’opportunità: “i social media possono essere utilizzati come strumento di rilevamento dei rapporti sociali, cosa molto utile nel giornalismo investigativo. Ci sono diversi esempi di storie investigative basate su analisi di cerchie sociali su Facebook o LinkedIn. Una ragazza slovacca, ad esempio, è addirittura riuscita a rilevare possibili casi di corruzione nell’ottenimento di prestazioni sanitarie nel suo paese, analizzando tutti i contratti e le relazioni personali tra i consigli di amministrazione degli ospedali e il management delle aziende che gestiscono i servizi. Le persone lasciano molte informazioni e molti dati personali nei social media, per questo è importante sapere come seguirli”, ci dice il giornalista.

Mulvad, inoltre, crede che parte del miglior Data Journalism venga eseguito da network transnazionali indipendenti come l’International Consortium of Investigative Journalists, che ha svelato numerosi casi di illeciti nei paradisi fiscali con il progetto OffshoreLeaks. Queste rivelanzioni hanno portato a un’ampia revisione da parte dell’Ue della legge sul riciclaggio di denaro, che ha colpito grandi aziende e persone piuttosto benestanti in tutta Europa.

“Questo non sarebbe stato possibile senza l’utilizzo di strumenti del data journalism”, ha dichiarato Mulvad, “ma anche la cooperazione internazionale tra i giornalisti è stata importante in questo progetto: era necessaria infatti una profonda conoscenza di ogni paese coinvolto e questo comportava la collaborazione di un team internazionale. Oggi, con strumenti come i social media e software gratuiti, tutto è possibile. Il Data Journalism è una sorta di nuovo movimento punk”.

Articolo pubblicato originariamente in polacco e tradotto dall’inglese da Georgia Ertz

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