Non importa che siate a capo di uno dei colossi mondiali dell’informazione come Arianna Huffington oppure che siate due giovani giornaliste lettoni di nome Inga Springe e Arta Giga e che lottiate per far conoscere la verità in una terra difficile per la libertà di informazione: la porta per il vostro futuro – e per quello della professione – si chiama “fondo per il giornalismo investigativo”. Il ritorno al passato, a quel lavoro fatto con scrupolo per il quale si viene minacciati o persino uccisi, come l’ha definito Julian Assange, è una realtà sempre più diffusa, che si sta riorganizzando in nuove forme e che si estende a macchia d’olio nel vecchio come nel nuovo continente, anche se con obiettivi e condizioni profondamente differenti.
Oltreoceano il giornalismo investigativo è una strada antica sempre più reinterpretata in funzione di nuove opportunità, come testimoniano i casi esemplari dell’Huffington Post Investigative Fund, di ProPublica e del più recente iwatchnews.
Una tendenza particolarmente evidente negli ultimi anni è quella di dare vita a centri esterni rispetto alle testate giornalistiche di origine, che raccolgono somme ingenti di fondi privati (si arriva a decine di milioni di dollari) e che sotto l’ombrello del no profit mettono a disposizione gratuitamente le inchieste ai vari media outlet. Questi esperimenti si caratterizzano anche per una spiccata predisposizione al digitale: metodi open source, apertura al citizen journalism, possibilità di rilanciare e diffondere le inchieste sui propri blog e social network disegnano il profilo di un giornalismo investigativo sempre più digital e sempre più social sia nella raccolta delle fonti che nella diffusione della notizia.
Nel vecchio continente il fenomeno del ritorno al giornalismo investigativo si sta espandendo a macchia d’olio, anche grazie a iniziative di respiro internazionale come la Global Investigative Journalism Conference. Ma a differenza degli Stati Uniti, dove prevalgono alcune grandi “isole” di produzione dell’inchiesta, in Europa sono particolarmente diffusi gli esperimenti su scala nazionale o locale, con fondi limitati e l’obiettivo prevalente di aggregare i giornalisti del settore. Il Baltic Center for Investigative Journalism fondato proprio nel settembre 2011 dalle due giovani giornaliste lettoni Inga Springe e Arta Giga (il sito sarà online a ottobre) è un esempio di come nel contesto europeo il ritorno all’inchiesta persegua gli obiettivi più antichi, in linea con la storia delle cooperazioni tra giornalisti investigativi. Nasce in Arizona nel 1975 la prima “Association for Investigative Reporters and Editors”, e solo un anno dopo i suoi membri si trovano a dover riscattare la morte del giornalista Don Bolles, ucciso da una bomba messa nella sua auto. L’esplosione ferma Bolles ma non la sua inchiesta, che verrà ripresa e portata a termine dai colleghi dell’associazione: questa storia verrà ricordata come “The Arizona Project” e diventerà il simbolo della necessità per i giornalisti di cooperare per assolvere insieme alla missione della ricerca della verità, anche quella più scomoda.
Associazioni di questo tipo cominciano a strutturarsi in Europa già nel decennio seguente: nel 1989 la Danimarca, nel 1990 Svezia e Norvegia, nel ’92 la Finlandia raccolgono il testimone del giornalismo investigativo in forma cooperativa. Da una dimensione europea si passa negli anni Duemila al tentativo di costruire una rete globale: nel 2001 a Copenhagen si tiene la prima Global Investigative Conference. Da allora si susseguono le nuove associazioni in Olanda come in Germania, passando per la Romania, fino ad oggi. Nel 2011 la nascita del centro baltico sembra ripercorrere quegli stessi intenti e parte dalla constatazione che la libertà di informazione nei paesi baltici va sempre più riducendosi. L’impegno a fare rete è diffuso ormai in tutto il mondo. Se lo European Fund for Investigation sceglie il perimetro dell’Europa e finanzia i progetti più meritevoli di respiro europeo, nei singoli Paesi continuano a fiorire le associazioni e le cooperazioni, che nel loro complesso tracciano rapporti di dimensioni ormai globali.
Lo stesso impegno proviene anche dal fronte statunitense, basti citare lo International Consortium for Investigative Journalists diretto da David E. Kaplan e che pur avendo la sua sede principale a Washington abbraccia ormai più di 50 nazioni. Negli Stati Uniti però il giornalismo investigativo no profit non è esclusivamente una strada per salvaguardare le funzioni originarie della professione, prima fra tutte quella di cane da guardia del potere. Le avventure mediatiche degli ultimi anni suggeriscono che il ritorno all’inchiesta può essere anche la via per accrescere il proprio potere mediatico, per rafforzare (o ridefinire) il prestigio di una testata e per corroborare le potenzialità del web. Senza dimenticare l’esperienza eccezionale di ProPublica, portale online del giornalismo d’inchiesta il cui prestigio è siglato da un premio Pulitzer e che può contare su fondi milionari (per maggiori su Propublica cliccate qui), ci soffermiamo sull’esperienza dello Huffington Post Investigative Fund proprio per disvelare alcuni volti nuovi del ritorno al giornalismo investigativo.
La nascita nel 2009 dell’Huffington Post Investigative Fund si pone in linea con i tentativi già avviati sin dal 2006 dalla“Queen of aggregation” di abbandonare sempre più l’aggregazione pura di contenuti giornalistici prodotti dai media già affermati per puntare sui contenuti autoprodotti. “È sempre stata nostra intenzione, una volta raccolti i soldi, assumere persone per fare inchieste”, parola di Huffington. E l’originalità di contenuti matura anche nel ritorno a quella forma di giornalismo originaria che è l’inchiesta. L’Investigative Fund di Huffington si propone – questo l’obiettivo dichiarato – nientemeno che di salvare il giornalismo. Nella pratica, l’esperimento non è esente da critiche: “Il giornalismo benefico di Arianna Huffington è funzionale solo a lei stessa”, è uno dei titoli sferzanti che salutano la novità. La stroncatura fa riferimento al meccanismo messo in piedi: una fondazione no profit, che riceve fondi esentasse dall’Atlantic Philantropies e dallo Schumann Center for Media and Democracy, e che di fatto dà linfa e notizie innanzitutto all’Huffington Post. Il progetto parte con un budget di un milione e 750mila dollari, ma si amplia attraverso una costante raccolta fondi. Vi è uno staff composto da reporter assunti e da collaboratori freelance che ha il compito di “scovare” notizie, fare inchieste. Il risultato è un’inchiesta messa a disposizione di tutti i cosiddetti media outlet, includendo i blogger e gli utenti in generale. Nel caso dell’Huff Fund, il centro di produzione delle notizie d’inchiesta è a se stante rispetto ai luoghi della loro diffusione. Almeno in teoria: se poi abbiano ragione i tanti osservatori secondo cui il fondo in pratica non è altro che un braccio dell’Huffington Post, è una questione degna di nota.
E se è vero come fanno notare in molti che il primo a beneficiarne è lo stesso H.Post, due sono le valutazioni più interessanti per il futuro. Il primo è insito nella dichiarazione della Huffington: salverò il giornalismo. Quest’affermazione, vera o falsa che sia, parte dalla constatazione che l’inchiesta è diventata per il mondo giornalistico una sorta di riserva indiana. Il ritorno all’inchiesta viene quindi riformulato tenendo conto dei nuovi strumenti e del contesto mediatico contemporaneo: le potenzialità del digitale sono un aspetto non accessorio del progetto. Il tentativo di ridare fiato al giornalismo investigativo è a tutti gli effetti un ritorno al futuro: prende avvio dalla consapevolezza che questo tipo di professionalità sta quasi scomparendo e che ha sempre meno spazio nei luoghi dell’informazione, e di fatto opta per l’esternalizzazione: i fondi dei privati garantiscono la sostenibilità della forma di giornalismo che più richiede investimenti, per poi rimetterla a disposizione dei media gratuitamente. Inoltre, ripercorrendo le orme del giornalismo più antico, il modello H. Fund dà anche nuova forma all’attività di reportage: convivendo con il contesto digitale, sfrutta le potenzialità del web a monte e a valle. Gli utenti possono contribuire all’inchiesta, arricchirla, diffonderla. Il metodo è dichiaratamente open source, il richiamo è al citizen journalism, gli esiti trovano le dimensioni della loro forza nella potenzialità di diffusione capillare attraverso blog e social network. Ancora una volta come in tutta la storia dell’Huffington Post il piano è ambizioso e la tendenza è glocal: dal terreno di inchiesta e dai contributi dei singoli, fino alla diffusione mondiale. “Lo scopo di un giornalismo non-profit come questo è quello di avere un impatto sul mondo”, dichiara Nick Penniman, direttore esecutivo dell’Investigative Fund. “Noi siamo riusciti ad avere un’influenza sul dibattito pubblico e sulla vita delle persone.”
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