Chiunque abbia cercato di analizzare i risultati delle ultime elezioni europee e di scoprire le cause più profonde delle complesse dinamiche che li hanno preceduti – come il crescente peso del populismo e del nazionalismo negli stati membri dell’Ue, le politiche d’immigrazione o la crisi finanziaria dell’Eurozona – avrebbe dovuto inevitabilmente identificare almeno due “mancanze”, strettamente correlate tra loro, nessuna delle quali ha ricevuto però sufficiente attenzione pubblica.
La prima è l’assenza di una sfera pubblica europea o di uno spazio comune per comunicare tra cittadini europei. La seconda è che in molti paesi del Vecchio continente mancano persino degli standard professionali comuni minimi per quanto riguarda il giornalismo e il genere di infrastrutture mediatiche essenziali necessarie a garantire che i cittadini abbiano accesso a fonti d’informazione indipendenti e affidabili.
Sorprendentemente, pochissimi attori importanti sembrano prendere sul serio queste problematiche – anche se sappiamo bene come sia possibile affrontare una grande sfida come quella dell’integrazione europea solo se esistono dei canali di comunicazione adeguati. Come tutti i governi, l’Ue spende milioni di euro – provenienti dalle tasche dei contribuenti – in pubbliche relazioni e pubblicità nel tentativo di ridare smalto alla sua immagine pubblica, però non è ancora stato fatto abbastanza per sostenere una copertura mediatica indipendente su scala europea delle questioni comunitarie, a meno che non si contino i 25 milioni di euro di sovvenzione diretta destinati ogni anno alla pressoché invisibile rete televisiva Euronews.
Un’impresa quasi impossibile
È necessario che un giornalismo serio informi i cittadini sui meccanismi dell’Ue e faccia sì che istituzioni e politici rendano conto delle proprie azioni. Nessuno, ad esempio, dovrebbe sottovalutare il carico della sfida che attualmente devono affrontare i giornalisti inviati a Bruxelles. Solo pochi decenni fa le cose erano molto diverse: per le prime generazioni di corrispondenti europei il compito era ancora gestibile e i giornalisti di base nella capitale belga erano ben informati e scrivevano indipendentemente, anche se spesso prendevano una posizione accondiscendente riguardo l’integrazione europea e l’unificazione.
Naturalmente, ci sono ancora alcuni eccellenti giornalisti che lavorano a Bruxelles e dovremmo stare attenti a non idealizzare troppo il periodo precedente, ma non si può negare che le condizioni lavorative siano cambiate in modo radicale negli ultimi 20 anni. Oggi l’Ue è iper-complessa e il parlamento europeo è composto da ben 751 membri. Almeno 10 volte lo stesso numero di persone, circa 7500, sono impiegate dal Parlamento. La Commissione conta 28 commissari, uno per ogni stato membro. La burocrazia del governo continua ad aumentare: 32mila persone lavorano per i dipartimenti della commissione e 4300 interpreti e 800 traduttori sono impiegati dalle istituzioni della Ue. A questi si aggiunge un enorme esercito di portatori d’interessi: gli esperti stimano che a Bruxelles lavorino 25mila lobbisti, 11200 dei quali registrati ufficialmente.
Il numero dei giornalisti presenti a Bruxelles non è riuscito a tenere il passo con questa enorme espansione delle risorse umane. Parlare di politica europea spetta di norma alla sezione esteri dei giornali, che tende ad essere uno dei primi bersagli dei tagli in tempi di rapida diminuzione degli introiti pubblicitari e degli abbonamenti. Il corpo di corrispondenti riconosciuti a Bruxelles si è ridotto di oltre il 20% negli ultimi quattro anni, passando da 955 a 770 giornalisti registrati. Ciò significa che i lobbisti registrati a Bruxelles sono ora 14 volte più numerosi dei giornalisti accreditati. Forse dovremmo trattare queste cifre con cautela, ma senza dubbio ci dicono qualcosa sullo spostamento di potere dal “quarto potere” indipendente dei media verso interessi privati che cercano l’attenzione dei funzionari pubblici e dei media a Bruxelles.
C’è almeno un’area in via di sviluppo nel giornalismo di Bruxelles: il numero di freelancer è aumentato esponenzialmente. È difficile trovare cifre recenti accurate, ma, stando a una fonte, nel 2015 c’erano otto volte più giornalisti freelance di quelli che lavoravano lì nel 2010. Tanti, tuttavia, stanno lottando per la sopravvivenza e molti sono diventati troppo dipendenti dalle pubbliche relazioni stesse, dato che i fondi disponibili per indagini giornalistiche approfondite continuano a ridursi.
La “johnsonizzazione” del giornalismo
Tutto ciò ha portato alla “johnsonizzazione” della copertura mediatica da Bruxelles: un approccio superficiale che preferisce titoli appariscenti ad un’analisi più approfondita e alla ricerca della verità. Questo trend è stato iniziato proprio da Boris Johnson. Molto prima che lui diventasse uno dei leader della campagna per la Brexit, ministro degli esteri inglese e il candidato favorito per succedere a Theresa May, Johnson era un corrispondente del Daily Telegraph da Bruxelles. Tra il 1989 e il 1994 ha esercitato un’influenza maligna, rafforzando gli atteggiamenti euroscettici dei suoi connazionali scrivendo storie in stile tabloid e cercando sempre di primeggiare sui suoi colleghi.
Anche agli editor di altri tabloid piacevano questo genere di notizie e questi giornali londinesi sono famosi per imitarsi a vicenda ed è facile immaginare che si ponessero la stessa domanda durante le riunioni in sala stampa: “perché il nostro giornale non ne parla?”. Quelli che in un primo momento potevano essere casi isolati, si sono evoluti in un trend che anni dopo ha contribuito a portare alla Brexit.
Ma la “normalizzazione” della copertura dell’Ue è avvenuta anche nell’Europa continentale, come si può vedere oggi quando gli eccessi della burocrazia di Bruxelles o gli intoppi nella politica dell’Ue finiscono sotto i riflettori dei media. Articoli sui difetti dei protocolli politici, come la regola del voto all’unanimità, e sul mancato rispetto delle norme dell’UE da parte degli stati membri, come i criteri di convergenza di Maastricht – così come il noto regolamento che specifica quanto possano essere ricurvi i cetrioli – dominano il panorama quotidiano delle notizie. La copertura mediatica dell’Ue, come ogni altra, è inoltre caratterizzata da una cinica e datata massima giornalistica: “le cattive notizie vendono meglio di quelle buone”.
Nei media di tutta Europa la una prospettiva nazionale prevale ancora su quella europea. I mezzi di comunicazione si concentrano sulle crisi, accentuandole e favorendo così la diffidenza nei confronti delle istituzioni europee. Stando alle parole del consulente politico tedesco Johannes Hillje, si sta scivolando in un “circolo vizioso politico-mediatico di conflitti, notizie e nazionalismo”, che alla fin fine fa il gioco dei populisti.
Iniziative pan-europee
Con i leader europei che danno per scontato che le generazioni precedenti di corrispondenti fossero ben disposte verso il progetto europeo, sia l’Ue che l’industria dei media hanno trascurato di adottare dei provvedimenti volti a gettare delle fondamenta solide per il giornalismo continentale. I progetti mediatici pan-europei o sono falliti in pochi anni (come nel caso del The European di Robert Maxwell, lanciato nel 1990 in risposta agli eventi storici del 1989) o hanno avuto un impatto ridotto (come nel caso di Euronews, fondato nel 1993 con lo scopo di guardare alle notizie provenienti da tutto il mondo da una prospettiva europea).
Anche se Euronews era frutto dell’iniziativa di un gruppo di broadcaster pubblici, questi non sono riusciti a trasformarlo in un’impresa più sostenibile, con news e programmi d’intrattenimento tradotti in tutte le lingue dell’Ue. Si è trattato di un’occasione mancata di creare uno spazio pubblico europeo e di incoraggiare una collaborazione reciprocamente proficua tra culture giornalistiche differenti.
Abbiamo quasi esaurito il tempo a nostra disposizione. La fiducia nel giornalismo si sta affievolendo e c’è un grosso punto interrogativo sul futuro della stampa e della TV in tempo reale. Le generazioni più giovani leggono e consumano meno informazioni su carta stampata e non si piazzano più di fronte al televisore ad orari stabiliti. Siccome per i mezzi d’informazione sta diventando sempre più difficile ottenere dei profitti, alcuni oligarchi con ambizioni politiche stanno investendo nei mezzi d’informazione con lo scopo di favorire i loro interessi politici – e non solo nell’Europa centrale e orientale.
Promuovere le procedure migliori
L’Ue avrebbe potuto fare molto di più per promuove dei programmi di formazione giornalistica su scala europea. Il programma Erasmus permette un fitto interscambio di studenti in varie discipline, ma sono ancora rari i programmi di Bachelor e Master multilingue in giornalismo e cooperazione internazionale come l’European Journalism MA all’Università di Salonicco in Grecia o il master franco-tedesco in transnational journalism lanciato di recente dalla Sorbona e dall’Università di Magonza.
C’è un bisogno impellente – specialmente nell’Europa del Sud e dell’Est – di media più specializzati che incoraggino una conoscenza condivisa dei principi del giornalismo, promuovano “procedure migliori” che vadano oltre le barriere linguistiche e incoraggino gli scambi internazionali tra le numerose e varie culture giornalistiche europee. L’Ejo, che vanta ben 15 versioni linguistiche ed è stato co-fondato dall’autore nel 2004 presso l’Università della Svizzera italiana di Lugano, rappresenta finora un’iniziativa unica, ma il suo budget ridotto gli conferisce una visibilità limitata.
Alleanze contro la disinformazione
Per combattere la minaccia della disinformazione in modo efficace c’è bisogno di più iniziative del genere e di network, sia a livello europeo che nazionale, e non solo tra istituiti di ricerca sui media. Ricercatori e giornalisti seri dovrebbero cooperare più da vicino al di là di confini e barriere linguistiche.
Alcuni potrebbero dire che non è realistico aspettarsi grossi risultati da queste “alliance for enlightment”, dato che il giornalismo e le scienze si muovono su due orbite differenti – come Marte e Venere. Ma entrambi cercano a modo loro di distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. Il presidente dell’European Federation of Academies, Antonio Loprieno, di recente ha enfatizzato l’importanza di mantenere la fiducia nella scienza. A tale fine è necessario contrastare le conoscenze emotive generate dai social media e garantire una maggiore visibilità delle “notizie vere”. Gli scienziati devono impegnarsi in un dialogo “faccia a faccia” con la società, avvalendosi dell’aiuto di giornalisti seri nel tentativo di far passare il messaggio in modo chiaro ed efficace. L’Ue dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di sostenere tali iniziative invece di cercare di combattere le notizie false con la propria “task force”.
Questo articolo è una versione abbreviata e aggiornata della lezione di commiato tenuta dal Prof. Stephan Russ-Mohl presso l’Università della Svizzera italiana di Lugano lo scorso 28 maggio 2019. Il testo completo è stato pubblicato dalla Neue Zürcher Zeitung. Traduzione a cura di Claudia Aletti. Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non rispecchiano necessariamente quelle di tutto l’Ejo.
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