Ridurre il costo del lavoro, unica e possibile risposta alla crisi dell’editoria?
La reazione del sito di Lsdi in risposta all’articolo sulla riduzione dei posti di lavoro avvenuta nelle redazioni di alcuni giornali svizzeri, suggerisce una riflessione sui metodi attraverso i quali si affronta la crisi dell’editoria. Nell’articolo in questione si commenta con soddisfazione quanto avvenuto poiché l’eliminazione di oltre 200 giornalisti viene considerato come un passo necessario per modernizzare e rendere più efficiente l’organizzazione del lavoro e, non ultimo, rendere le strutture economicamente sostenibili.
Insomma, quanto avvenuto è valutato un fenomeno uguale a quanto avviene in una qualsiasi attività produttiva interessata da una crisi di mercato: si vendono meno automobili? si diminuiscono i posti di lavoro; si vendono meno giornali e il valore economico della pubblicità non garantisce ricavi sufficienti? si riducono le dimensioni delle redazioni. In definitiva nell’uno e nell’altro caso viene applicata una logica di tipo industriale: meno mercato, meno posti di lavoro.
Tuttavia nascono spontanee alcune considerazioni. Se è vero che il taglio dei posti di lavoro può essere spesso un male necessario in quanto conseguenza di una crisi economica e strutturale – in presenza di una profonda trasformazione nelle abitudini dei consumatori e nel processo di cambiamento innescato dalla nuove tecnologie non è più possibile garantire l’esistenza dello status quo – è anche vero che il tutto può essere amaramente condiviso solo se la ristrutturazione viene sostenuta da un piano industriale, da una progettualità che faccia intravvedere la volontà di perseguire obiettivi reali e condivisibili in termini di organizzazione del lavoro. Non solo, ma se tutte queste operazioni non vanno a modificare metodi e mezzi che dovrebbero consentire di raggiungere obiettivi di maggiore efficienza non hanno alcun significato.
Lo sappiamo, nei giornali con una eredità storica che affonda le radici nella carta stampata, vi sono situazioni che andrebbero sanate per garantire una maggiore capacità di governo dei nuovi processi di creazione dell’informazione. Eppure, in alcune situazioni, la volontà dell’editore è ridurre il costo del lavoro senza saper fornire una risposta rispetto alla capacità di sostenere la qualità di una più ampia quantità di contenuti così come richiesto dall’esistenza di canali di comunicazione diversificati e multimediali.
Una ristrutturazione dovrebbe essere accompagnata da un’analisi seria che contribuisca a salvaguardare la qualità del giornalismo, altrimenti si corre il rischio di avere un’informazione tendenzialmente allineata ai gusti del pubblico, per usare un gergo che tanto piace al management, ma sempre più povera. Va poi ricordato come, a parità di giornalisti espulsi dal lavoro contrattualizzato, si alimenta a dismisura il precariato.
Fare di più con meno, gestire stampa e online, ha significato per molti aumentare il numero di notizie avvalendosi di lavoro sottopagato. Ma è giusto, sempre e comunque, rincorrere la quantità a scapito della qualità? Se da un punto di vista economico i giornali sono parte integrante di un’industria dell’informazione che deve necessariamente rispondere a logiche industriali, da un punto di vista giornalistico andrebbero prese misure che possano preservare la qualità della produzione e l’integrità della professione giornalistica. Può esistere, se vogliamo, anche un valore della decrescita: non tanto fare di più con meno, ma fare meglio con meno.
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