Esattamente un anno fa in molte piazze della Siria avevano inizio le manifestazioni scaturite sull’onda delle rivoluzioni della Primavera araba. Anche i siriani, coraggiosamente scesi in strada per chiedere riforme democratiche a uno dei più repressivi regimi del pianeta, hanno sperato e sperano di poter sovvertire lo status quo nel loro paese. Ma la repressione del governo di Bashar al-Assad è stata sin da subito violentissima e a un anno di distanza si è tramutata in una lotta serrata tra forze governative e opposizioni che secondo l’Onu avrebbe già causato 8mila morti. Contrariamente a quanto avvenuto in Libia, dove l’esercito ha progressivamente abbandonato Gheddafi fino alla sua capitolazione, le forze militari sono rimaste fedeli al governo di Damasco. E proprio per il sostegno dei vertici amministrativi e della difesa, il potere centrale può imporre una stretta senza precedenti sulle opposizioni. L’ultima notizia di cronaca, rimbalzata sui media internazionali tra le mille difficoltà causate dalla censura, riguarda la città di Homs, dove 50 corpi mutilati sono stati rinvenuti in due quartieri. Secondo gli attivisti siriani l’eccidio sarebbe opera dei shabihaa, le milizie del regime. Il tutto da un anno avviene sotto l’occhio inerte delle grandi potenze internazionali, ferme nello stallo del muro contro muro degli Usa con la Russia che sostiene Assad.
Roger Cohen, in un editoriale sul New York Times ha messo a confronto l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sulla Siria e il caso Kony2012, il documentario virale sul criminale di guerra ugandese Joseph Kony, fortemente criticato per la sua superficialità e la conseguente esorbitante circolazione riscossa in Rete. Perché tanta attenzione per questo video e così poca per gli attivisti siriani, la cui vicenda è più attuale, stringente e giornalisticamente “sul pezzo”? Secondo Evgeny Morozov il tutto sarebbe dovuto all’hype ingenuo generato da Twitter e alle maggiori capacità di marketing di Invisible Children (l’associazione che ha diffuso il documentario). Ma sono queste le dinamiche che smuovono gli animi dei netizen di tutto il mondo, costringendo la Siria a rimanere sempre in secondo piano? La situazione dei media in Siria è drammatica (dati di Reporters Without Borders): 7 giornalisti uccisi, numerosissimi arresti di attivisti e citizen journalist – 16 in un solo raid lo scorso febbraio contro il Syrian Centre for Media and Freedom of Expression di Damasco – molti dei quali detenuti solo per aver concesso interviste e collaborazione a testate estere. Internet è stata messa offline per la prima volta lo scorso giugno e per quanto ora la connessione sia stata formalmente ristabilita, si segnalano spesso rallentamenti e oscuramenti selettivi, specie di venerdì, quando si tengono le manifestazioni più imponenti. Lo scopo? Impedire che le testimonianze delle rivolte e delle repressioni trapelino attraverso la Rete fuori dai confini della Siria. Persino WhattsApp, la app di instant messaging per device mobili, è stata bloccata qualche giorno fa. Sulla Rete siriana è in atto una serrata cyber-guerra mossa dal governo per stanare i dissidenti digitali che cercano di comunicare attraverso il web, anche con il controllo dei social network, fonte di dati sensibili. L’hashtag #Syria su Twitter è stato spesso infiltrato da profili fake creati dall’intelligence di Damasco per bombardarlo di spam e nascondere i tweet informativi. Facebook può invece tramutarsi in una trappola per gli attivisti che si espongono troppo o rivelano, anche inconsapevolmente, i loro dati personali.
Ma mentre la censura governativa si fa sempre più forte e i media stranieri sono stati espulsi dal paese, il contributo dei cittadini e degli attivisti siriani è l’unico a garantire un flusso di informazioni al di fuori del paese. I centri media dei comitati di coordinamento locali sono pressoché la fonte unica di informazione grazie ai materiali che riescono faticosamente a far emergere in Rete, tramite vie alternative come il canale su YouTube LCCSyria TV. Proprio il ruolo di questi coraggiosi attivisti può rappresentare anche la svolta per la Siria e il suo riposizionamento nell’agenda dei media internazionali: il premio “Cittadino della Rete”, indetto ogni anno da Reporters Without Borders nella Giornata mondiale contro la cyber-censura, è stato assegnato questa settimana a Parigi proprio ai collettivi siriani per il loro ruolo fondamentale nell’utilizzare Internet contro la censura. Il premio è stato ritirato da Jasmine, attivista siriana 27enne che risiede in Canada.
Altra visibilità alla Siria è arrivata da Al Jazeera che ha mandato in onda il 14 marzo un documentario sulle rivolte girato da un anonimo corrispondente con un iPhone per via dell’impossibilità di portare nel paese attrezzature video. E proprio in Syria: Songs of Defiance si può sentire: “Nonostante tutta questa violenza e gli attacchi, ogni notte ci sono manifestazioni. Si è tramutato in qualcosa che sentono di dover fare, come se avessero libertà solo per quel momento. E le persone dicono di sentirsi depresse se non escono in strada. Ma c’è un fenomeno: a tarda notte, la gente urla “Allahu Akbar”. Si è tramutato in una dichiarazione di spregio. “Siamo ancora qui”. Proprio mentre il Guardian pubblica le mail private dei coniugi Assad.
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