Donald Trump o Joe Biden, chi uscirà vincitore alle elezioni americane di oggi? Non sono un indovino, sono un ricercatore, quindi non vorrei avanzare un verdetto prematuro, nonostante la grande disponibilità di dati forniti da tutte le previsioni demoscopiche esistenti. Ci sono però elementi che indicano come l’ascesa di Biden alla presidenza Usa non sia affatto scontata, anche se i sondaggisti e molti giornalisti hanno previsto una vittoria dei democratici, proprio come hanno fatto quattro anni fa.
L’onnipresenza di Trump nei media parla da sé: i giornalisti lo hanno aiutato a raggiungere questo status contribuendo ad amplificare i suoi tweet assurdi. Sebbene venga fatto spesso con intento di derisione, questo ha anche generato attenzione e una visibilità costante e gratuita per il Presidente attualmente in carica. Se Trump avesse dovuto pagare per dare spazio alle sue fake news e alle sue provocazioni sotto forma di spazi pubblicitari, lui e i responsabili della sua campagna sarebbero andati in bancarotta molto tempo fa.
Secondo un recente articolo della Columbia Journalism Review, durante il periodo delle elezioni del 2016, Trump è riuscito a garantirsi l’equivalente di circa due miliardi di dollari di tempo di trasmissione e pubblicità gratuita con l’aiuto di un budget relativamente piccolo per la campagna e le sue capacità di “intrattenimento”.
Il Washington Post ha raccolto oltre 20mila dichiarazioni false o fuorvianti rese da Trump durante il suo primo mandato. I media hanno diligentemente aiutato a diffondere tutto questo e il pubblico si è abituato a vedere il reality show di Trump riprodotto ogni giorno sui loro schermi. Questo non è vale solo per il canale di notizie ultraconservatore Fox, ma vale anche per le più progressiste MSNBC o CNN e molti altri canali che operano nel campo avversario.
Questo conferma un’argomentazione recentemente avanzata dallo studioso di cinema Vinzenz Hediger sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, secondo cui Trump sarebbe “prima di tutto una figura mediatica che attira i fan a sé in un modo che lo rende immune a un esame accurato della discrepanza tra la sua immagine pubblica e il suo curriculum”. I suoi sostenitori, scriveva ancora Hediger, “non dovrebbero essere intesi principalmente come elettori convenzionali che considerano razionalmente i loro interessi quando valutano l’agenda politica di un politico, ma piuttosto come fan che lo vedono come una sorta di star”.
Cosa ci dice la teoria della “spirale del silenzio” sull’America di Trump
La domanda da porsi ora è se sia possibile, in tali condizioni, vincere un’elezione per una figura sostanzialmente invisibile come quella di Joe Biden, soprattutto se la strategia è quella di restare indietro nella speranza che l’avversario si espelli da sé dalla gara, in un paese vasto e segnato da dure divisioni come gli Stati Uniti contemporanei. Due teorie accademiche classiche suggeriscono che una simile linea di condotta non possa essere fruttuosa. Nessuna delle due è particolarmente contemporanea, sebbene entrambe siano ancora valide. Questa sono la spirale del silenzio e l’economia dell’attenzione.
Già negli anni ’80, la ricercatrice Elisabeth Noelle-Neumann aveva attirato l’attenzione sulla “maggioranza silenziosa”, che tiene segrete le sue opinioni reali ai sondaggisti, per paura dell’ostracismo sociale. Secondo Noelle-Neumann la maggioranza silenziosa si sente intimidita dai bastioni dell’opinione pubblica. A questo occorre aggiungere che oggi molti professionisti dei media non si considerano più custodi del “Graal”, ovvero la ricerca imparziale della verità. Al contrario – e questo riguarda anche i vertici del New York Times e del Washington Post – molti professionisti del giornalismo si comportano più come attivisti che combattono per quella che il filosofo comunista Antonio Gramsci ha descritto come “egemonia culturale”.
Il loro modus operandi sembra essere più quello di dare l’impressione di rappresentare la “verità”, che è determinata dalla maggioranza. Chi non è d’accordo con questa “verità” entra in una “spirale di silenzio” in cui si nascondono le opinioni autentiche della maggioranza. Questo concetto spiega perché le previsioni elettorali così spesso divergono dai risultati effettivi di più del consueto tasso di errore del tre per cento nei sondaggi
L’economia dell’attenzione e la moderna fiera della vanità
Un’altra intuizione rilevante per questa discussione viene dal ricercatore viennese e autore di “The Economy of Attention” Georg Franck, il cui nuovo libro Vanity Fairs esamina i social media con cui le persone comuni interagiscono ogni giorno, come Instagram, TikTok, YouTube o Facebook. All’apice di questi mondi ci sono gli “influencer”, ovvero i famigerati auto-promotori. È piuttosto sorprendente quanto spesso queste figure riescano a trasformare la loro presenza sui media e lo status di celebrità in termini di entrate economiche o addirittura voti. Donald Trump è probabilmente l’esempio più compiuto e visibile al mondo – per quanto maleducato, ignorante e senza scrupoli possa sembrare a molti.
Studiosi che si mobilitano contro Trump
Gli studiosi non stanno solo cercando di spiegare il fenomeno Trump, ma sono anche diventati più coinvolti che mai nell’attuale campagna presidenziale. Anche le riviste scientifiche più rispettate hanno preso posizione. Ad esempio, per la prima volta nella sua storia lunga 175 anni, Scientific American ha rilasciato un endorsement. Nature ha seguito presto l’esempio e il New England Journal of Medicine ha preso una posizione ferma contro Donald Trump nei suoi editoriali.
Inoltre, quattro settimane fa, una settantina di ricercatori politici e dei media si sono rivolti ai giornalisti con alcune raccomandazioni su cosa dovrebbero e non dovrebbero fare quando coprono le elezioni. La guida dell’Election Coverage and Democracy Network è lodevole, perché i ricercatori hanno sottolineato per diversi anni le lacune dei modi in cui i media hanno gestito le campagne elettorali. I loro importanti consigli vengono però solitamente dimenticati in occasione delle elezioni successive dai giornalisti stessi.
Questi ricercatori ricordano l’influenza che i media e i giornalisti possono avere sul voto, specialmente per quanto riguarda la possibilità di far oscillare gli elettori che decidono sui risultati delle elezioni. Un consiglio particolarmente rilevante per i giornalisti è quello di ignorare le dichiarazioni prive di fondamento. Francamente, questo si riferisce principalmente ai tweet di Trump.
Nella guida si consiglia inoltre ai giornalisti di astenersi dal considerare la propria copertura elettorale come una “corsa di cavalli”. Questo approccio, dicono i ricercatori, non fornisce informazioni utili agli elettori, ma piuttosto potrebbe confonderli e smobilitarli. Il fatto è che le previsioni che trattano le elezioni come gare “testa a testa” non sono particolarmente valide perché il tasso di errore nei sondaggi varia tra più o meno del 3%.
Connesso a ciò vi è la pratica apparentemente comune tra i giornalisti di nascondere la propria conoscenza da insider al loro pubblico, in parte perché credono che non farlo potrebbe rovinare una presunta “bella storia”. Questo è snervante e desta preoccupazione per lo stato di salute della democrazia americana. È quindi preoccupante che solo tre pagine delle linee guida dello studio trattino di come gestire la fase finale della campagna elettorale, e in particolare “i tentativi di indebolire le elezioni”. Altre otto pagine sono invece dedicate a ciò che i giornalisti dovrebbero fare se i risultati delle elezioni venissero contestati o qualora un candidato non ammettesse la sconfitta o scoppiassero disordini dopo il voto.
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