Raccontare la scienza al grande pubblico è anche una questione di formato. Quelli che a una prima lettura possono sembrare temi di difficile comprensione, se raccontati con il giusto registro, possono invece essere veicolati efficacemente, evitando il rischio bufale, troppo frequenti nell’ecosistema dell’informazione italiana.
Andrea Gentile, giornalista scientifico di Wired Italia, pubblica oggi il suo libro La scienza sotto l’ombrellone per Codice Edizioni, un testo che vuole “rispondere ai tanti perché che nascono sotto l’ombrellone” dando risposte scientifiche a piccoli quesiti quotidiani. L’occasione è perfetta per discutere di giornalismo scientifico e della sua divulgazione, a cominciare dal recente ed emblematico caso Stamina.
Il tuo libro è un ottimo esempio di come poter avvicinare il grande pubblico a tematiche scientifiche. Quale pensi sia la strategia giornalistica più efficace da questo punto di vista?
“La strategia che ho usato nel libro è stimolare la curiosità delle persone, per mostrare quanto possa essere interessante il mondo che ci circonda in spiaggia. Di solito, quando un giornalista scientifico racconta del proprio mestiere, la risposta più classica è ‘A scuola andavo male in matematica e fisica, non ci capisco nulla’. Peccato che la scienza non sia davvero quella insegnata alle superiori. Basta aprire un quotidiano e vedere quanti argomenti possano essere letti in chiave scientifica. Si va dal funzionamento del Brazuca, ai film di fantascienza come Gravity, fino ad arrivare ai lavori della polizia scientifica nel caso di Yara Gambirasi. La scienza è la chiave di accesso verso una dimensione che è davanti ai nostri occhi, ma che normalmente ignoriamo. Anche in spiaggia”.
Pensi che la scienzia sia trattata a dovere e a sufficienza dai media italiani? Chi pensi stia facendo un buon lavoro in questo senso?
“La scienza è ovunque, ma non viene trattata nel modo giusto. Nelle redazioni generaliste, infatti, i giornalisti scientifici strutturati sono davvero pochi. Questo è un peccato, perché è il pubblico a perderci. Sia chiaro, non bisogna essere scienziati per fare del buon giornalismo scientifico. Servono solo una solida preparazione giornalistica e un’ottima conoscenza del mondo della scienza. Non necessariamente dei singoli contenuti: per scrivere di fisica non si deve essere Einstein. Piuttosto si devono avere ben presenti i meccanismi che regolano la comunità scientifica (uno su tutti: la revisione dei pari) e avere un buon giro di contatti affidabili. Un bagaglio di conoscenze non così diverso da qualsiasi altro settore, che sia lo sport, l’economia o la cronaca nera. Se di vaccini scrive un giornalista generico, per esempio, è più facile che si perpetui la bufala che causino l’autismo”.
Stamina ha rappresentato un caso emblematico per questo settore giornalistico. Quali sono i problemi connessi a questi episodi, dal punto di vista giornalistico? Credi si sia fatta molta disinformazione?
“Stamina è stato un caso esemplare. Nato inizialmente nel 2009 come notizia di cronaca (con un’indagine della procura di Torino), è presto diventato un tormentone dell’infotainment, un acchiappa audience trainato dal programma Le Iene Show. Senza alcuna prova scientifica, si è portata avanti l’idea che il trattamento di Davide Vannoni fosse efficace. Solo alcuni siti, tra cui Wired, hanno rivolto a Stamina l’attenzione meritata. I quotidiani italiani, invece, hanno reagito con grande ritardo, come il resto della tv. Per mesi e mesi le parole di Vannoni sono state amplificate dalle telecamere, in programmi che mostravano bambini malati senza alcuna decenza. Un fallimento del giornalismo, che non si è accorto del caso che stava montando e ha lasciato che la discussione degenerasse in opposte fazioni. Se tutti i mezzi di comunicazione si fossero rivolti sin dall’inizio a scienziati competenti, forse il metodo Stamina non sarebbe arrivato neanche in Parlamento”.
Ultimamente si parla spesso di “bufale”. Come ne spieghi la diffusione? C’entra davvero Internet?
“Internet è un mezzo, non ha alcuna colpa. Alla fine una bufala non è altro che una notizia cui crediamo (innocentemente o meno) e divulghiamo, ma che in realtà è falsa. Il problema si crea non tanto perché usiamo la Rete per divulgare delle panzane, quanto piuttosto a causa della nostra propensione a cascarci. Se si tratta del complotto sulle scie chimiche, nessuno ne avrà avuto danno, ma quando parliamo di salute, come nel caso della dieta vegana che curerebbe i tumori, rischiamo di mettere in pericolo la vita delle persone. Ciò che manca è un sano scetticismo per le informazioni che ci sono presentate. E questo temo sia dovuto a una scarsa cultura e alfabetizzazione scientifica degli italiani”.
Qual è il percorso formativo migliore, a tuo dire, per un aspirante giornalista scientifico?
“Le strade per arrivarci sono parecchie. Generalmente si parte da una laurea scientifica, anche se non è davvero necessaria. La formazione post laurea resta un classico, ci sono diversi master in Italia, come quello in Comunicazione della scienza alla Sissa di Trieste, o altri simili a Roma e Milano, ma è davvero indispensabile il lavoro sul campo. Collaborare con una redazione che ogni giorno fa giornalismo scientifico o farci addirittura uno stage è il modo migliore per imparare il mestiere”.
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