Gli aggregatori “rubano” contenuti e generano profitti rigurgitando quanto prodotto dai giornalisti che hanno firmato gli articoli in partenza. Nell’opinione giornalistica corrente, mentre i reporter si occupano del lavoro giornalistico propriamente detto, gli aggregatori raccolgono i risultati di sforzi altrui. Da quando siti come l’Huffington Post o BuzzFeed hanno iniziato a sfidare la supremazia dei siti di news classici, i giornalisti hanno bollato la pratica “copia-e-incolla” di questi portali come un’usanza da impostori, opportunistica e scorretta. Questa immagine, comunque, è troppo semplicistica, sostiene C.W. Anderson (Department of Media Culture, College of State Island) che, in nuovo studio, ha analizzato l’expertise giornalistico nell’era digitale, mettendo a confronto la classica pratica di newsmaking, con quella degli aggregatori. Il risultato? Giornalisti e aggregatori non sono poi tanto diversi.
Anderson sostiene che l’expertise giornalistico non possa più essere confinato nelle nozioni tradizionali di “competenze di redazione”, come se si trattasse di proprietà fisse che possano essere rivendicate e disseminate. “Quando definita in termini di pratica”, sostiene il ricercatore, “la linea tra aggregazione e reporting originale non è completamente chiara, nonostante i tentativi retorici di purificare la categoria e di disegnare confini netti”. “Gli aggregatori e i giornalisti”, continua Anderson, “assemblano entrambi cocci di fatti, citazioni, documenti e link per creare storie dal forte tratto narrativo”. Invece di guardare agli aggregatori e ai reporter come rivali, Anderson sostiene di pensare a entrambi i gruppi come a partner che possano creare “network di expertise giornalistico”. In termini di attività pratiche, i due ambiti non sono troppo diversi.
Lo studio pubblicato da Journalism è basato su una content analysis svolta in occasione di un workshop della Federal Communications Commission (Fcc) (per un totale di 340 pagine di transcript) e su una ricerca etnografica svolta sul campo presso diverse redazioni. Esaminando i contenuti del workshop, Anderson ha voluto guardare a come accademici, professionisti e chi si occupa di policy discutono di prodotti giornalistici, distinguendoli nettamente tra “aggregati” e “originali”. I temi più ampi della discussione identificati da Anderson sono i seguenti: “la presunta connessione tra reporting originale e una democrazia in salute, le conseguenze negative dell’economia digitale per chi crea contenuti originali e la confusione a riguardo di cosa siano gli aggregatori e come si differenzino dai motori di ricerca”.
In un secondo momento, Anderson presenta i risultati della sua analisi etnografica degli aggregatori di notizie per descrivere di cosa essi si occupino effettivamente. La linea di fondo, come espresso da un giornalista diventato “aggregatore” in un’intervista è la seguente: “ci sono competenze anche per l’aggregazione di notizie”. Anderson descrive gli aggregatori come “gerarchizzatori, rimbalzatori, riscrittori e illustratori di contenuto Web” e identifica la “capacità di giudizio sulle notizie” come la loro prima qualità. Nelle loro stesse parole, gli aggregatori descrivono quello che fanno come “tenere le orecchie aperte su quanto avviene in Rete”. Inoltre, aggiungono di attribuire valore nuovo ai contenuti che aggregano. Anderson, allo stesso tempo, sottolinea come cosa sia questo valore aggiunto rimanga ancora piuttosto vago. La distinzione tra le due pratiche, sostiene il ricreatore, vanno cercate altrove.
Per Anderson, infatti, “gli aggregatori hanno accettato in modo più ampio siti e i link e categorie di evidenza digitale come oggetti che possono essere processati nei network di news. I giornalisti, d’altro canto, rimangono sposati a un’evidenza analogica fatta di citazioni, fonti governative, osservazioni in prima persona e documenti analogici come primi materiali grezzi su cui costruire le loro storie. Questo, da un certo punto di vista, si relaziona con la pratica materiale, dall’altro, va a toccare la cultura giornalistica”. La differenza non va cercata nel lavoro svolto da entrambe le attività, conclude il ricercatore, quando piuttosto nelle “cose del giornalismo che vengono utilizzate per costruire le storie.
Articolo tradotto dall’originale inglese, “The Rise of the Aggregators”
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